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“I troppi buchi della legge 40”, di Luca Landò

Pezzo dopo pezzo, comma dopo comma. A otto anni di distanza la legge sulla fecondazione assistita si è trasformata in un lenzuolo bucato, un groviera normativo ben diverso dall’impianto legislativo che nel 2004 divise il Paese a metà. L’ultimo colpo è arrivato ieri. Si tratta della sentenza con cui il Tribunale di Cagliari ha riconosciuto il diritto di una coppia (lei talassemica, lui portatore sano) di ricorrere alla diagnosi preimpianto dell’embrione. Un diritto che la legge non nega ma nemmeno difende, lasciandolo così facile preda delle interpretazioni di comodo e dei governi di turno.
È quello che successe con le linee guida del ministro Sirchia che durante il governo Berlusconi di fatto bloccò l’applicazione delle analisi preimpianto parlando di un loro utilizzo a solo scopo «osservazionale». Espressione contorta per dire che le analisi, anche se eseguite, non avrebbero mai potuto impedire l’inserimento dell’embrione, nemmeno di fronte alla certezza di una grave patologia.
Il risultato è che oggi dei 76 centri pubblici che effettuano la «procreazione medicalmente assistita» nessuno (nessuno) offre quella diagnosi preimpianto che pure era stata autorizzata nel 2008 dalle linee guida di Livia Turco, ministro della Salute dopo Sirchia, e dalle numerose sentenze che si sono succedute in otto anni.
La sentenza di ieri non è dunque una bocciatura della legge 40 ma un intervento che toglie la diagnosi dell’embrione da un pericoloso e ambiguo limbo normativo che la legge conteneva e permetteva. E stabilisce, una volta per tutte, che quelle tecniche sono utili, dunque preziose per la vita della donna e di chi nascerà. La vicenda della coppia di Cagliari è indicativa: lei affetta da talassemia, lui portatore sano. In base alla legge 40 potrebbero accedere alla procreazione medicalmente assistita perché infertili ed eseguire una diagnosi preimpianto per verificare, prima dell’inserimento in utero, se l’embrione è affetto dalla patologia dei genitori. Ma il laboratorio si rifiuta, lasciando la coppia di fronte a due possibilità: rinunciare alla diagnosi e correre il rischio, oppure rivolgersi ad una struttura privata dove i costi si aggirano però intorno ai 9.000 euro a ciclo. Seguono invece un’altra strada. E si rivolgono a un tribunale.
Contando i ricorsi per correggere le singole parti della legge (come la possibilità di congelare gli embrioni, di fare analisi preimpianto, di abolire il limite dei tre embrioni per ciclo di fecondazione) sono già venti le volte in cui i giudici sono intervenuti per affermare i diritti delle coppie secondo lo spirito della Costituzione anziché gli articoli della legge 40. E sono ben cinque le pronunce con le quali la Corte costituzionale ha di fatto «riscritto» il testo normativo: non male per una legge che l’allora maggioranza berlusconiana volle con forza, anche a costo di creare fra i cittadini un improbabile confronto tra Guelfi e Ghibellini della bioetica su una materia tanto delicata quanto complessa.
Il risultato è una normativa fuori dal tempo e dalla realtà che non tiene conto né delle conoscenze scientifiche raggiunte né del calvario cui vengono in questo modo poste le coppie che ricorrono alla fecondazione assistita. Non solo quelle affette da infertilità, ma anche uomini e donne portatori di patologie serie e che vorrebbero evitare di mettere al mondo un figlio malato gravemente o ricorrere all’aborto terapeutico. Perché questo, non altro, è l’esito di una legge sulla fecondazione assistita che vuole ostacolare, anziché favorire, l’uso delle analisi preimpianto dell’embrione.
Un ultimo punto. La scorsa estate il governo ha annunciato di voler ricorrere contro la sentenza emessa il 28 agosto dalla Corte di Strasburgo proprio sul tema delle diagnosi preimpianto. Viene da chiedersi se, alla luce di questo nuovo pronunciamento e di quelli collezionati finora, sia davvero il caso di portare a livello europeo la difesa di una legge, non solo sbagliata ma anche malfatta; o non sia più opportuno ragionare sul lungo elenco di bocciature e correzioni che arrivano dai tribunali e dai cittadini. Non vorremmo sbagliare ma anziché sostenere a oltranza la legge 40 forse è arrivato il momento di prendere una decisione. Anzi due: ammettere l’errore. E ricominciare da capo.
L’Unità 16.11.12
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Diagnosi preimpianto. La legge 40 è a pezzi
Il tribunale di Cagliari ordina all’ospedale di eseguire l’esame Affossato l’emendamento per il disconoscimento dei bambini «in provetta»
di Jolanda Bufalini
Nuovi fuochi si accendono attorno al totem ideologico della legge 40 sulla procreazione assistita, come avviene, con regolarità, quando si avvicina lo scontro elettorale. Le soluzioni di buon senso per risolvere i problemi che affliggono le coppie sterili e le donne con il loro desiderio di maternità si allontanano e si riattizza la contrapposizione ideologica che lascia irrisolte le questioni.
Ieri gli episodi sono stati due: l’affossamento, in commissione Affari sociali, di un emendamento alla legge 40 presentato dall’onorevole Antonio Palagiano (Idv) su cui erano d’accordo tutti i gruppi. Si prevedeva che le donne che hanno concepito un figlio con la procreazione assistita possano disconoscere, alla nascita, il bambino. L’altro episodio è avvenuto a Cagliari dove un giudice ha deciso in favore di una coppia (la donna è talassemica) che si era vista negare dalla struttura pubblica l’indagine prenatale.
Quello del disconoscimento è un diritto di tutte le donne: nella ratio c’è soprattutto il proposito di scoraggiare l’aborto. Un figlio indesiderato può vedere la luce in ospedale, con la garanzia per la madre dell’anonimato. Estendere la norma a chi ha fatto ricorso alla provetta risponde a un principio di uguaglianza. Ma, quando sembrava che l’emendamento potesse passare in commissione, con i tempi veloci che la discussione d’Aula preclude, pare ci sia stata una riunione informale della commissione Affari costituzionali, alla presenza del sottosegretario Cecilia Guerra. «Questa norma si è sostenuto apre la porta all’utero in affitto, in questo modo una coppia gay può, in accordo con la donna che disconosce, avere il figlio».
Chi dice queste cose, reagisce il professor Carlo Flamigni, «è malvagio», «è qualcuno che pensa male delle donne, le guarda con sospetto, le considera sciocche e facilmente portate a sbagliare». Fa un esempio concreto: «Può darsi il caso che una donna che ha fatto ricorso alla procreazione assistita venga abbandonata dal marito e, al momento di partorire, non sia in condizione di mantenere il bambino che nascerà». È un problema di eguaglianza, «per il resto sono sufficienti le leggi che vietano in Italia l’utero in affitto. Prima siamo tutti eguali poi, il legislatore, se teme delle scappatoie, provvederà con le eccezioni».
A guidare le file dei sospettosi Eugenia Roccella, “madrina” della legge 40: «Bisogna garantire che non vi siano forme surrettizie di commercio intorno alla procreazione assistita, e non si possa aggirare il divieto di fecondazione eterologa». «La norma della legge 40 aggiunge Roccella è un concreto ostacolo a forme più o meno mascherate di mercato del corpo, come per esempio l’utero in affitto». Con lei Paola Binetti (Udc), Carlo Casini del Movimento per la vita, Barbara Saltamartini (Pdl).
Risponde Margherita Miotto, capogruppo Pd agli Affari sociali: «Non sono a conoscenza di contesti informali. Il Pd ha sostenuto l’emendamento Palagiano con forte convinzione. Le ipotesi su utero in affitto o affidamenti alle coppie gay sono frutto di inutili dietrologie. Quella è una norma riconosce l’uguaglianza tra la maternità naturale e quella assistita, non apre nuovi scenari, peraltro vietati dalla legge». Maria Antonietta Farina Coscioni: «Mettere in discussione la legge 40 sembra essere qualcosa di scandaloso».
Invece la legge sulla procreazione assistita esce ancora una volta malconcia dalla sentenza di Cagliari. In origine la legge 40 proibiva non le indagini preimpianto ma il congelamento degli embrioni, norma caduta per effetto di una sentenza della Corte costituzionale del 2009. Livia Turco: «La legge 40 è pasticciata perché è ideologica. Dobbiamo modificarla nel cuore, cioè nel concetto di infertilità. Il testo attuale esclude quella derivante da gravi malattie, circostanza che rende una maternità rischiosa per la salute della donna e del bambino». La sentenza di Cagliari è la «numero 19 contro una legge ideologica», commenta Emma Bonino.
L’Unità 16.11.12