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"Terremoto, dopo lo stop Ue accordo per aiuti all’Emilia" di Marco Mongiello

Bruxelles è arrivato il conto da pagare e tra governi e istituzioni comunitarie è scoppiata una rissa in cui non si guarda più in faccia a nessuno. Ieri Olanda, Finlandia, Germania, Svezia e Gran Bretagna hanno rifiutato di approvare le modifiche al bilancio di quest’anno dell’ Unione europea bloccando, tra le altre cose, i 670 milioni di euro di aiuti già assegnati per il terremoto all’Emilia Romagna e i 180 milioni di euro del programma Erasmus per mandare gli studenti all’estero.
La grana è stata rinviata alla riunione dei ministri delle Finanze dei 27 che si terrà martedì, con «l’accordo politico» per salvare i fondi per l’Emilia. Ma la giornata di ieri è stata di fatto il calcio di inizio della più ampia partita sul bilancio europeo per il periodo 2014-2020. Due settimane di negoziati senza esclusioni di colpi che dovrebbero culminare nel vertice dei capi di Stato e di governo del 22-23 novembre. Le dispute sul bilancio, con i relativi negoziati fino a notte fonda, sono un classico dell’Unione europea che va in scena ogni sette anni.
GLI INTRANSIGENTI
Questa volta però quattro anni di crisi economica e di tagli ai bilanci nazionali hanno avvelenato l’aria e reso più intransigenti i contributori netti, cioè quei Paesi che versano a Bruxelles più di quanto ricevono attraverso fondi e programmi comunitari. Ieri i governi dei 27, rappresentati nel Consiglio, dovevano concordare con Commissione ed Europarlamento le modifiche ai bilanci del 2012 e 2013. Per quest’anno la Commissione aveva proposto un correttivo per erogare i fondi all’Emilia Romagna e un altro di quasi 9 miliardi di euro in cui rientrano i soldi per l’Erasmus e i fondi strutturali, di cui l’Italia è il principale beneficiario con pagamenti attesi per 1,887 miliardi di euro. Che tirava una brutta aria si era capito già a inizio giornata quando Andreas Mavroyannis, il vice ministro per gli Affari europei della presidenza di turno cipriota, aveva ammonito: «Un fallimento rischia di avvelenare le trattative sul bilancio pluriennale 2014-2020».
Secondo i cinque Paesi contributori netti i 9 miliardi di euro mancanti devono uscire fuori dal bilancio comunitario già stanziato, tagliando altri capitoli. Il nuovo ministro delle Finanze olandese, il laburista Jeroen Dijsselbloem, era stato chiaro fin da subito: «Non aspettatevi alcuna flessibilità da parte mia. Noi abbiamo preso delle misure drastiche nei Paesi Bassi e non possiamo accettare che il bilancio europeo aumenti. La Commissione europea deve decidere le sue priorità e tagliare laddove è necessario». Nel braccio di ferro quindi sono finiti pure i soldi del fondo di solidarietà per il terremoto. L’ambasciatore italiano presso l’Ue Ferdinando Nelli Feroci, che ha condotto i negoziati aggiornando costantemente il governatore dell’ Emilia Romagna Vasco Errani, il capo della Protezione Civile Franco Gabrielli e il presidente del Consiglio Mario Monti, ha spiegato che «tutti, e soprattutto la Commissione europea, la presidenza di turno cipriota del Consiglio Ue e il Parlamento europeo hanno sottolineato come i fondi per l’Emilia siano dovuti, e che una decisione in merito è necessaria e deve essere presa». Insomma, ha aggiunto, «non c’è un’opposizione, ma cinque o sei paesi hanno detto che la decisione sulle modalità del finanziamento di questi fondi deve venire assunta contestualmente a quella sull’altra rettifica del bilancio 2012, quella da 9 miliardi».
Le discussioni sul bilancio 2013 poi non sono neanche iniziate. I rappresen- tanti del Parlamento, tra cui l’eurodeputata Pd Francesca Balzani relatrice per il 2012, si sono rifiutati di continuare i negoziati prima di aver chiuso il capitolo sull’anno in corso. «Abbiamo deciso come Parlamento europeo di non trattare il bilancio 2013 se non saranno chiuse le partite del 2012, tra cui ovviamente la partita del fondo di solidarietà che non può essere messa sullo stesso piano delle altre», ha riferito Balzani. Quando a fine giornata il negoziato è stato rimandato a martedì i rappresentanti della Commissione si sono affrettati ad assicurare che sui fondi al terremoto c’è «un accordo politico», che però andrà finalizzato la settimana prossima.
«Abbiamo fatto quanto necessario per rispondere all’obbligo morale che abbiamo nei confronti dell’Italia e di chi ha subito i danni del terremoto», ha dichiarato il commissario Ue al Bilancio Janusz Lewandowski. Ma per il vicepresidente del Parlamento europeo, Gianni Pittella, il blocco dei finanziamenti europei destinati alla ricostruzione dell’ Emilia Romagna «è di inaudita gravità». Secondo l’eurodeputato Pd «gli egoismi e l’avarizia di alcuni Paesi si spingono fino al punto di scardinare due pilastri della Ue: prima con il progetto Erasmus, per il quale abbiamo reagito mettendolo al riparo, e ora mettendo in discussione la solidarietà alle popolazioni colpite dal terremoto». Adesso, ha concluso Pittella, «occorre fermare il virus delle convenienze nazionali e ridare all’Europa un’anima fatta di solidarietà e di coesione. Senza di esse tutto va in frantumi e i danni saranno di tutti».
L’Unità 10.11.12
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“Un pericoloso corto circuito”, di STEFANO LEPRI
L’Europa piacerà sempre meno a quelli che dovrebbero essere i suoi cittadini, se continuerà a funzionare in modo tanto contorto. Forse il no ai fondi per l’Emilia terremotata era soltanto una mossa tattica all’interno di un arcano mercanteggiamento.
Ma diventa sempre più difficile spiegare alla gente che cosa accade; anche perché, altre volte, il diniego di solidarietà da parte di alcuni Paesi c’è davvero.
Tutto il negoziato sul bilancio dell’Unione europea si trascina a sussulti di intricatissimi do ut des tra burocrazie nazionali, capaci di annoiare pressoché chiunque. Dentro ci sono problemi veri, come la posizione della Gran Bretagna, come il rapporto tra l’Unione a 27 (presto 28), e l’area euro avviata a integrarsi di più se vuole sopravvivere; problemi che a nessun governo al momento conviene evidenziare come tali.
Solo una piccola quota del denaro dei cittadini viene spesa dall’Unione, il cui bilancio totale è circa un sesto di quello del solo Stato italiano; e va ricordato (specie al Nord del continente) che il nostro Paese versa assai più di quanto riceva. Comunque sia, non si può più decidere così quali sono le priorità, in negoziati dove perlopiù i diplomatici si destreggiano a cercare compromessi tra differenti misture nazionali di interessi costituiti.
Pezzo a pezzo, negli anni, si è costruita una struttura che spesso per funzionare richiede di dire una cosa per farne un’altra. Ad esempio la Commissione di Bruxelles sa benissimo che ulteriori dosi di austerità non sarebbero tollerabili, ma è costretta a fare la faccia feroce per evitare che i politici di certi Paesi ritornino ai vecchi vizi. Il recente richiamo all’Italia, sugli impegni anche dopo il 2013, è rivolto a chi vincerà le elezioni; quando perfino il governo tecnico ha qualche difficoltà a centrare l’obiettivo 2012 (i dati sui conti del Tesoro in ottobre non sono granché buoni).
Tutto questo andrebbe ripensato alla radice. Certe menzogne demagogiche contro l’Europa – strumento del sopruso di alcuni Paesi, veicolo di spietati progetti oppressivi, o altro a seconda dei gusti – sono possibili grazie all’oscurità del disegno di insieme. E se il Parlamento europeo continuerà ad avere poteri tanto scarsi, come convinceremo nel 2014 gli elettori ad andare alle urne? Che autorità ha un governo (la Commissione di Bruxelles) in cui non solo la scelta dei membri, ma anche parte dell’articolazione dei dicasteri, derivano da faticose alchimie di vertice tra Stati?
Solo con poteri chiaramente attribuiti, trasparenti, legittimati, l’Europa può riconquistare fiducia. Il guaio è che oggi siamo di fronte a un corto circuito pericoloso. La Germania chiede passi avanti verso l’unione politica perché solo una effettiva cessione di sovranità da parte degli Stati può permettere più solidarietà tra le nazioni. La Francia ribatte che solo una crescente solidarietà da subito può invogliare alla cessione di sovranità. I due governi hanno a che fare con elettorati in modo diverso riluttanti.
E’ normale che i cittadini di diversi Paesi abbiano priorità differenti. Quello che non si può più fare è affidare il compito di conciliarle soltanto ai rapporti di vertice tra governi o, peggio, a un equivalente diplomatico del mercato delle vacche. Occorre un’arena pubblica in cui chi desidera rappresentare i cittadini si misuri con la necessità di spiegarsi a nazioni diverse, e presenti programmi capaci di essere intesi in tutte le lingue. Già da adesso, in vista del rinnovo del Parlamento europeo nel 2014, non basta che i partiti di ciascun Paese competano su come meglio rappresentare quel Paese a Strasburgo; servono liste europee in gara per esprimere sulla scala dell’Unione le idee di ogni parte politica.
La Stampa 10.11.12