“Non siamo un paese diviso come la politica ci fa credere. Non siamo il paese diviso tra le bandierine rosse e blu…”: nel bel discorso con cui Barack Obama ha salutato la sua rielezione credo che il cuore sia proprio qui. Mentre agli occhi degli osservatori (specie di quelli europei) la lunga notte dello spoglio dei voti, dei grandi elettori spartiti tra democratici e repubblicani, della lunga incertezza durata molte ore appare, quasi plasticamente, come un momento di grande divisione a quelli del presidente appena rieletto il dato di fondo è quello dell’unità del Paese, del bene comune.
È stata una grande vittoria per Obama, una vittoria niente affatto scontata e forse persino sorprendente. Nel cuore della grande crisi che Obama ha avuto in eredità dall’era Bush, il presidente ha raggiunto il traguardo della rielezione, cosa che non era riuscita sinora a nessuno dei suoi colleghi. Non a Sarkozy e neppure a Zapatero (taccio del caso italiano in cui il governo è stato travolto dalla recessione): i quattro anni alla Casa Bianca sono stati difficili e pieni di insidie ma evidentemente anche dentro un grande rallentamento e un umore depresso Barack Obama è riuscito a dare risposte efficaci, rimettendo in movimento quello che la crisi rischiava di paralizzare. Non è un caso – se ne è parlato molto guardando ai risultati dei diversi Stati – che la fascia delle città industriali abbia premiato il presidente e che l’Ohio, lo Stato decisivo perché è sempre in sintonia col voto di tutti gli americani, abbia segnato alla fine la sua vittoria. Lì Obama aveva compiuto le scelte più difficili e costose, quelle di non abbandonare la tradizione manifatturiera. Lì si avvertiva con più esattezza la differenza con lo sfidante Mitt Romney.
Ora, come dice il presidente, «viene il meglio». Ora arrivano le sfide più difficili e più esaltanti sul doppio terreno dell’economia e dei diritti di cittadinanza che sono
stati i due piani sui quali Obama ha vinto e sui quali secondo molti osservatori si costruisce in questa tornata elettorale una sorta di coalizione sociale ed etnica. È straordinario il voto raccolto tra i giovani come quello avuto (aldilà, ovviamente, che tra gli afroamericani) tra la comunità latina, che diventa sempre più numerosa e influente, sempre più integrata e dinamica.
In questo senso si può dire che ha vinto un’idea dell’America aperta, mobile, inclusiva. Dovrà far affidamento a tutto questo ora Obama per affrontare le prove più difficili, quelle di stabilizzare il debito e insieme di ridurre la disoccupazione. Quattro anni fa la vittoria di Barack Obama sembrava uscire da una straordinaria forza emotiva. Il voto di oggi è probabilmente meno di cuore e più di cervello: una scelta meditata e non facile, ma per questo ancora più solida. Obama vince non solo per il numero dei grandi elettori ma anche (rovesciando i pronostici) nel voto popolare, conserva una maggioranza in Senato, e anche alla Camera il vantaggio repubblicano non straripa anzi, si riduce un po’. Credo che questo dia al presidente più ottimismo. E il voto (per tornare un momento alla questione del «Paese diviso») va visto anche come la prova straordinaria di una qualità del sistema politico americano.
Mi ci ha fatto riflettere anche una frase di Michael Moore, il regista contestatore di «Fahrenheit 9/11» che, dopo tante incertezze, ha scelto di sostenere Obama tempestando di messaggi gli amici perché andassero a votare. Lì, un sistema fortemente bipolarizzato consente di mettere in evidenza con chiarezza e anche con radicalità le diverse offerte politiche, ma dopo il voto permette anche quella ricomposizione e quel senso di unità. Chissà, da noi probabilmente Michael Moore avrebbe costruito un suo partito: un sistema politico non altrettanto efficace (per usare un eufemismo) sembra farci camminare tra il doppio rischio di una contrapposizione amico-nemico o di una specie di melassa in cui le differenze si occultano lasciando spazio alla rabbia, al populismo, alla delusione del sono tutti uguali.
Obama, in un quadro difficile, è riuscito a fare quello che i grandi presidenti democratici sanno fare meglio nelle sfide elettorali: motivare la propria gente e convincere quell’elettorato fluttuante che sceglie di volta in volta il contendente più credibile. Era successo con Roosevelt come con Clinton. È quell’incrocio di visione lunga, e di pragmatismo, di empatia col Paese e di voglia di cambiamento che sono i caratteri migliori della cultura democratica.
L’Unità 08.11.12
Pubblicato il 8 Novembre 2012