Prima dell’uragano di New York, arriva lo tsunami di Sicilia. Basta che Beppe Grillo attraversi a nuoto lo Stretto di Messina, e l’onda anomala investe l’isola. Devasta quasi tutto, a partire dalle vecchie «casematte » del potere di centrodestra. Tra le macerie si erge un’alleanza di centrosinistra, fragile e non autosufficiente. E si staglia un Movimento 5 Stelle, agile e destabilizzante. Se questo esito del voto siciliano si proiettasse su scala nazionale, ne verrebbe fuori un quadro politico indecifrabile. E un Parlamento ingovernabile. Sul piano locale, queste elezioni regionali offrono tre spunti di riflessione. La prima evidenza, la più inquietante, è il combinato disposto tra la corsa dell’anti-politica e la fuga dalla politica. Tutti immaginavano che il comico genovese, in trasferta in una terra a lui incognita, avrebbe ottenuto un buon risultato. Ma non era affatto scontato che, con poco più di una settimana di comizi nelle piazze e nelle valli sicule, Grillo riuscisse a diventare il primo partito in quasi tutte le città, con percentuali che oscillano intorno al 18%. Non contano le proposte programmatiche sull’isola formulate dal leader dell’M5S. Conta la voglia di cambiamento purchessia di chi lo ha votato, che fa premio su tutto. Se a questo dato aggiungiamo il record di un’affluenza alle urne che per la prima volta nella storia repubblicana resta sotto la soglia psicologica del 50%, l’abisso che separa gli elettori dagli eletti (per disincanto populista o per disinteresse astensionista) diventa davvero pauroso.
La seconda evidenza, la più stupefacente, è il crollo totale del Pdl, che è alla base dell’insuccesso di Musumeci. La Sicilia è storicamente un feudo della creatura berlusconiana, che qui è nata come Forza Italia, è cresciuta, ha incubato le sue più disinvolte formule coalizionali ed ha coltivato i suoi trionfi epocali. Dalla satrapia condivisa con il «socio» centrista Totò Cuffaro al leggendario «cappotto » 61 a zero del 2001. Dalle vette vertiginose del 46,6% ottenuto alle politiche del 2008, poi parzialmente corretto al 33,4% delle regionali, oggi il Partito del Popolo delle Libertà precipita al 12%. Una miseria di voti, racimolati nella terra dei Marcello Dell’Utri, dei Renato Schifani e soprattutto di quell’Angelino Alfano che qualcuno vorrebbe degno ed unico erede dell’impero del Cavaliere, e che persino nella sua Agrigento incassa l’ennesima umiliazione. Nonostante questo, il segretario di Berlusconi (molto più che del suo partito) parla di un «risultato straordinariamente positivo». Più che indignazione, suscita compassione. La terza evidenza, la meno sconfortante, è la tenuta dell’asse Pd-Udc, che consente almeno a Crocetta di governare la regione, magari attraverso un ulteriore patto con il movimento di Miccichè e Lombardo. È il segno che l’alleanza tra progressisti e moderati ha un suo senso, anche in una regione generalmente «inospitale» per la sinistra. Bersani parla di «un risultato storico», e a suo modo dice il vero.
A parte il dominio assoluto della Dc ai tempi della Prima Repubblica, nella Seconda in Sicilia ha sempre governato la destra (con l’insignificante parentesi di Antonio Capodicasa, esponente dell’allora Pds, che guidò Palazzo dei Normanni tra il ’98 e il 2000). Dunque, per il centrosinistra aver piazzato comunque la sua bandiera nell’isola è un passo avanti. Ma il segretario farebbe bene a non enfatizzare troppo il «successo». La ditta Pd-Udc è comunque la somma di due debolezze: insieme (se si aggiunge il 6,5% della lista civica Crocetta) fanno più del 30%, ma da soli i democratici calano a poco più del 13% e l’Udc si ferma al 10,8% (contro, rispettivamente, il 25,4% e il 9,4% delle politiche 2008). Vuol dire che il centrosinistra vince sulle rovine del centrodestra, cede consensi ai grillini e non intercetta quelli finiti nel frigorifero dell’astensione.
La Sicilia è da sempre un «laboratorio », che anticipa e consolida le tendenze generali. Questi tre effetti del voto locale avranno dunque implicazioni significative sulla politica nazionale. A destra si produce l’ennesimo paradosso.
Proprio il risultato siciliano (che sancisce plasticamente la fine del ciclo berlusconiano e l’eutanasia di Alfano, un «delfino» mai nato) offre a Berlusconi l’opportunità di rilanciarsi ancora una volta come unico demiurgo della destra italiana. La destra dell’Editto di Villa Gernetto: populista e forzaleghista, anti-europea e anti-repubblicana. La destra che attacca il rigore della Merkel e il Fisco oppressore, accusa la Corte costituzionale e la magistratura inquirente, e un giorno offre a Monti la guida del Ppe italiano mentre il giorno dopo minaccia di togliergli la fiducia in Parlamento. La destra che agita le primarie come una foglia di fico di un impossibile «pluralismo interno », ma che vedrà di nuovo il Cavaliere come il solo e il vero tragicomico Jocker di una campagna elettorale pericolosa per il governo e rovinosa per il Paese.
A sinistra si profila un’opportunità, ma anche un problema. L’idea di una vocazione maggioritaria del Pd, per quanto desiderabile e suggestiva, non sembra in sintonia con gli umori del Paese. Il Partito democratico ha dunque una sola chanche, che il risultato siciliano avalla e per certi versi propizia. Deve saper essere una forza capace di federarne altre, usando l’unica risorsa della quale in questo momento sembra disporre: il suo potere di coalizione. La sua forza di attrazione, che si deve poter esplicare sia alla sua sinistra, sia al centro. È la fatica del riformismo. Chi non capisce questo, e si ostina a porre veti insormontabili sulle alleanze e paletti irrinunciabili sui programmi, rischia di condannare il centrosinistra alla divisione, e quindi alla minorità.
Ma su tutto, resta una preoccupazione di fondo. Il voto siciliano ci consegna un panorama di formazioni politiche che, singolarmente prese, oscillano tra il 10 e il 20%. Tramontati i partiti di massa, esauriti i partiti personali, restano partiti medio-piccoli che per provare a governare possono solo provare a «consorziarsi ». Per il resto, un enorme bacino di suffragi in libera uscita, ma senza vie d’uscita: una domanda di cambiamento politico che non trova risposta nei partiti, incapaci di innovare persone e proposte, e quindi finisce nel limbo del non voto. Se questo fosse il risultato delle prossime elezioni nazionali, nella primavera del 2013, l’Italia ne uscirebbe a pezzi. Sarebbe uno scenario che, a dispetto di una politica che vuole tornare a guidare le sorti del Paese, sarebbe obbligata a ripetere l’esperimento in corso, cioè quello di una Grande o Piccola Coalizione. Ma con l’aggravante di un Parlamento balcanizzato, tra le convulsioni dei forzaleghisti e le aggressioni di un centinaio di deputati grillisti. Una prospettiva sicuramente favorevole a un Monti bis. Ma probabilmente sfavorevole all’Italia, che in balia dell’onda anomala si confermerebbe l’unica democrazia «commissariata» dell’Occidente.
La Repubblica 30.10.12
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“La maggioranza dei non elettori”, di ILVO DIAMANTI
FA UNA certa impressione vedere la partecipazione elettorale scendere sotto il 50%. Anche in una Regione, come la Sicilia, dove l’affluenza non è mai stata molto elevata, neppure in passato: 5-10 punti percentuali in meno rispetto alla media nazionale (e a volte anche oltre), a seconda del tipo di consultazione.
Però neppure in Sicilia, in passato, l’astensione era stata così alta. Da ciò la tentazione di decretare, in modo sommario, la crisi della democrazia e il distacco dei cittadini dalla politica. Valutazioni, peraltro, non del tutto ingiustificate. A condizione di chiarire il significato di questo comportamento. Perché l’astensione può avere ragioni diverse e perfino opposte. Alle elezioni presidenziali americane, ad esempio, l’affluenza alle urne, da oltre quarant’anni, non raggiunge il 60%. Ma è, anzi, più vicina al 50%. Senza che nessuno si sogni di parlare di democrazia in crisi e di crisi della democrazia. Al contrario. Un basso livello di partecipazione (non solo elettorale), secondo alcuni studiosi influenti (per tutti: Samuel Huntington), può venire letto come un atto di “fiducia” verso il sistema. Disponibilità ad “affidarsi” a chi è scelto dai cittadini. Mentre una partecipazione “troppo” elevata e accesa potrebbe complicare la “governabilità”. Non è lo stesso in Italia, ovviamente. Tanto meno in Sicilia e in molte aree del Mezzogiorno (ma non solo). Dove il voto viene, di frequente, espresso in base a logiche clientelari e particolaristiche. E il non-voto riflette indifferenza politica. Tuttavia, mai come in questa occasione, a mio avviso, l’astensione ha assunto un significato “politico”. Esplicito e preciso. Perché raccoglie, certamente, una componente “patologica” di disaffezione. Ma questa volta si associa alla – e sottolinea la – delegittimazione dei principali partiti, a livello regionale e nazionale. Per capirci: Pd, Pdl e Udc, insieme, superano di poco il 36% dei voti. Validi. Cioè:
“rappresentano” meno di un elettore su cinque. (Pur tenendo conto del voto e di liste “personali” ai candidati presidenti).
Quel 52% di elettori che non si sono recati alle urne assume, per questo, un significato politico. Non va considerato, cioè, un non-voto. Ma un “voto”. È “il voto di chi non vota” (per citare il titolo di un volume del 1983, pubblicato dalle Ed. Comunità, a cura di Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino). Segnala la frattura nei confronti del sistema partitico della Seconda Repubblica. Questo voto (in) espresso, in particolare, sottolinea il big bang del centrodestra e, in particolare, del Pdl. Di cui la Sicilia ha, da sempre, costituito una roccaforte. Fin dal 1994, quando Berlusconi scese in campo, ottenendo larghissimi consensi nella regione. Dove, non a caso, nel 2001, la Casa delle libertà fece cappotto, conquistando tutti e 61 i collegi. Oggi quel 13% (dei voti validi) raccolto dal Pdl – seguita alla débâcle subita alle recenti amministrative siciliane – appare, a maggior ragione, una condanna per Alfano. Leader di un partito abbandonato dal fondatore – Berlusconi – e dagli elettori. Ma il voto di quel 52% di elettori che non hanno votato rimbalza anche sui vincitori. Il centrosinistra, il Pd e il loro candidato: Rosario Crocetta. Eletto governatore con poco più del 30% dei consensi espressi. Cioè: meno del 15% degli elettori siciliani. Una base sicuramente ridotta. Rischia di produrre un grado di legittimazione altrettanto ridotto.
L’ampiezza dell’astensione, peraltro, si associa e si aggiunge al risultato ottenuto dal M5s ispirato da Beppe Grillo. Primo partito in Sicilia, con circa il 15% dei voti di chi ha votato. Il cui candidato, Giancarlo Cancelleri, ha raggiunto il 18% (dei voti validi). Dunque meno del 9% fra gli elettori. A conferma della frammentazione del sistema partitico, vecchio e nuovo. Un risultato comunque rilevante, tanto più perché dimostra la capacità del M5s di superare i confini del Centro-Nord, dove aveva ottenuto i maggiori successi fino a qualche tempo fa. (Lo segnala anche un saggio di Bordignon e Ceccarini nell’ultimo numero del Mulino). Peraltro, soprattutto in questa occasione, sarebbe improprio considerarlo fenomeno meramente “anti-politico”. Il peso dell’astensione, infatti, carica il voto al M5s di significato “politico”. Perché si tratta, comunque, di un’alternativa al non-voto. Un voto “per”, oltre che “contro”. Attribuito a una lista e a candidati che saranno chiamati a rappresentare le domande degli elettori e della società locale. Fornendo risposte e rispondendone, in seguito, ai cittadini.
Per questo il livello raggiunto dall’astensione in queste elezioni regionali non va considerato, necessariamente, una fuga dalla democrazia. Ma, semmai, un messaggio. Un indice che misura – e al tempo stesso denuncia – la riduzione del consenso di cui dispongono gli attori politici della Seconda Repubblica. Soprattutto, ma non solo, quelli che l’hanno “generata”. Per iniziativa e su ispirazione di Silvio Berlusconi. Il voto di chi non vota, per questo, va preso sul serio. Potrebbe superare i confini della Sicilia. In fondo, attualmente oltre 4 elettori su 10, a livello nazionale, non sanno per chi votare. Gli attori politici – i partiti e i loro leader – debbono offrire loro delle buone ragioni. Anzitutto: per votare.
La Repubblica 30.10.12
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“Abbiamo sancito la fine dei partiti niente alleanze, siamo zitelle acide”, di SARA SCARAFIA
«Ma siamo sicuri che sono stato eletto deputato? ». Giancarlo Cancelleri, esponente del Movimento 5 stelle, 37 anni e 302 mila preferenze ottenute come candidato governatore, è ancora incredulo. Con il 18 per cento dei voti è arrivato al terzo posto nella corsa alla presidenza della Regione siciliana spendendo solo 25 mila euro per la campagna elettorale. Ieri nel garage alla periferia di Caltanissetta trasformato in comitato elettorale, ha festeggiato con mamma Angela, papà Michele e con la moglie Francesca.
Cancelleri, il Movimento 5 stelle è il primo partito in Sicilia, lei è stato eletto deputato all’Ars. Si aspettava questo risultato? «A dire la verità no: sentivo che c’era un grande entusiasmo attorno al movimento ma non pensavo a questo boom. Abbiamo decretato la fine dei partiti».
Beppe Grillo ha dichiarato a “Repubblica” che un 15 per cento in Sicilia avrebbe significato un 30 per cento a livello nazionale: crede che l’exploit del vostro movimento ci sarà anche a Roma?
«A livello nazionale si sentirà molto di più. Se la Sicilia è un laboratorio da oggi i partiti hanno un problema in più».
Grillo l’ha chiamata per complimentarsi?
«Non ci siamo ancora sentiti. Gli ho spedito un sms stamattina con scritto “Non te lo voglio nemmeno dire. Che cosa abbiamo fatto?”. E lui mi ha risposto: “Un piatto caldo o un salto nel buio?”».
Un piatto caldo?
«Mi prende in giro perché nei comizi dicevo sempre che avremmo amministrato la Regione
come il buon padre che garantisce alla famiglia un pasto caldo. A lui veniva il voltastomaco a sentire questa cosa».
Cosa ne pensa della vittoria di Rosario Crocetta?
«Penso che non ha i numeri per governare la Regione, è evidente ». Già nei giorni scorsi sia Crocetta che Nello Musumeci vi avevano lanciato messaggi di apertura. Cosa risponderete al nuovo governatore se vi chiederà
un appoggio?
«Che noi siamo zitelle acide e non ci fidanziamo con nessuno. Valuteremo le singole proposte presentate all’Assemblea».
Non teme la paralisi?
«No, in quel caso si torna voto. Temo piuttosto che in Sicilia si replichi il modello Monti: un governo fatto da Pd, Udc e Pdl in nome della stabilità».
I grillini a chi hanno tolto voti?
«A nessuno: la sinistra, per esempio, non era entrata all’Ars nemmeno la volta scorsa. La chiave del nostro boom va cercate nell’astensione: noi abbiamo portato alle urne gente che non aveva alcuna intenzione di votare, mentre i partiti tradizionali hanno perso migliaia di elettori che delusi hanno scelto di rimanere a casa».
Se Beppe Grillo non fosse venuto in Sicilia per 17 giorni avreste ottenuto gli stessi numeri?
«Credo di no, avremmo fatto bene ma non così. Grillo è stato fantastico: se a 64 anni puoi attraversare a nuoto lo Stretto, vuol dire che si può fare tutto. Ecco il messaggio di speranza che ha portato in Sicilia».
La presenza del comico-guru è stata ingombrante per la sua campagna elettorale?
«Ma no. Lui mi diceva di parlare, di farmi avanti. Ma la gente è Beppe che voleva sentire».
In molti vi hanno votato per protesta, senza conoscere il vostro programma. All’Assemblea siete il gruppo più numeroso: sarete in grado di portare avanti proposte concrete?
«Siamo entrati all’Ars dalla porta principale spendendo appena 25 mila euro. Ora comincia la parte più difficile: porteremo i cittadini dentro la Regione lavorando sodo e con la massima trasparenza.
La Repubblica 30.10.12
».
Pubblicato il 30 Ottobre 2012