Silvio Berlusconi ha offerto ieri l’immagine di un populismo pericoloso e impotente. La sua era un’ira incontenibile che minacciava ogni cosa – dal governo Monti fin qui sorretto dai voti del medesimo Berlusconi alla Costituzione italiana, dalle alleanze europee alla stessa moneta unica – ma che in realtà non aveva la forza di spostare neppure uno stuzzicadenti.
La parabola del Grande seduttore (e corruttore) contiene un voluminoso manuale di politica.
Dopo aver esercitato un potere politico così grande come non ebbe neppure De Gasperi, dopo aver fallito miseramente e trascinato l’intero Paese sull’orlo del baratro, dopo aver subito una dura condanna penale per una reiterata evasione fiscale (delitto tra i più gravi ai danni dei cittadini-contribuenti), il Cavaliere ha tentato di dire agli italiani che lui può ancora fare la guerra. Che Monti, i magistrati, l’establishment, gli avversari, i cittadini devono temere la sua ira, il suo spettro politico. Ma Berlusconi in realtà non è neppure in grado di togliere la fiducia al governo. È così il populismo: minaccia quando viene sconfitto, gioca al tanto peggio tanto meglio, esibisce il potere residuo come potenziale di autodistruzione. Del resto, anche il populismo al potere si cura più del consenso che della decisione, dell’autorità più che delle regole, e anzi forza le regole per preservare l’autorità.
Il populismo però è pericoloso anche quando perde. Perché inietta veleni. Perché altera il circuito democratico, che si fonda su una legittimazione delle istituzioni. Berlusconi invece ieri ha minacciato proprio questo: di sfasciare la casa comune. A cominciare dalla Costituzione, suo antico bersaglio. E non ha risparmiato l’Europa, accusando la Germania di una strategia deliberatamente anti-italiana e il governo Monti di subalternità al «nemico». In fondo, ieri, non facevano tanto impressione le parole della propaganda: ha detto che il governo avrebbe dovuto respingere il Fiscal compact dimenticando che, prima di Monti, Berlusconi firmò un accordo-capestro per l’Italia (unico Paese condannato al pareggio di bilancio nel 2013); ha detto che l’Imu va cancellata dimenticando che è stato proprio il suo governo ad introdurla e il fallimento della sua politica a renderlo così pesante per le famiglie; ha detto che l’Iva non va aumentata dimenticando che Tremonti l’aveva già fatto per salvaguardare i redditi alti, gli evasori e gli scudati. Del Cavaliere non colpivano neppure i violenti insulti contro i giudici che lo hanno reso cittadino al pari degli altri. Ciò che faceva impressione ieri era la rincorsa ad altri populismi, interni ed esterni, che segnano oggi la nostra crisi democratica e la drammatica posta in gioco. Il pericolo del populismo sta nel fatto che ha rotto gli argini della sfiducia e della paura. Sta nella debolezza della politica democratica, che non riesce a produrre decisioni in grado di generare politiche di equità, di uguaglianza, di sviluppo. E anche per questo non riesce a far circolare il sangue della partecipazione, del rinnovamento politico e generazionale. Stiamo rischiando la deriva, se non il baratro. Se non saremo capaci di uscire dalla seconda Repubblica al più presto, resteremo intrappollati nelle macerie. Se al Cavaliere nero seguirà ora un Cavaliere bianco, armato di un populismo diverso, cosa cambierà per le famiglie che pagano il prezzo della crisi, per i giovani esclusi dal lavoro, per i contribuenti tartassati perché tanti continuano a non pagare?
Berlusconi ha marcato ieri un isolamento rispetto a chi – Montezemolo, Casini, Riccardi – sta cercando di organizzare una nuova offerta politica nell’area moderata. Al di là dei suoi auspici di ricomposizione del centro-destra, la distanza è apparsa siderale. Ma purtroppo non è isolato il populismo di Berlusconi. Anzi, si sta diffondendo trasversalmente. E la competizione fra populisti sollecita il ribellismo anziché il cambiamento, l’invettiva anziché il lavoro di ricostruzione, la scorciatoia demagogica anziché le parole di verità sulle riforme necessarie.
Il Cavaliere non si candida a premier per il semplice fatto che quella carica è fuori dalla sua portata. Ma certo non si ritira, come l’Unità, con scettica prudenza, aveva sospettato nel giorno in cui molti cantavano le lodi. La sfida delle prossime elezioni resta intatta nella sua enorme portata: si deciderà se l’Italia è ancora uno dei grandi Paesi dell’Europa e se un’alleanza di progressisti e di moderati può mettere in agenda un cambiamento delle politiche economiche e sociali, in nome dei valori della Costituzione. I cittadini italiani potranno scegliere tra alternative politiche o saranno condannati all’emergenza gestita da tecnocrazie e oligarchie? Non è una domanda oziosa, e riguarda non solo le primarie del Pd e la sua proposta di governo, ma lo stesso lavoro di ricostruzione al centro.
La tentazione populista, bisogna dirlo con onestà e chiarezza, non risparmia nessuno. Chi vuole imboccare scorciatoie demagogiche nel confronto interno al centrosinistra e chi, nella competizione tra i moderati, non disdegna di imitare il Cavaliere inneggiando a slogan nuovisti o proponendo soluzioni carismatiche. Abbiamo già dato. L’Italia ha pagato un prezzo altissimo con Berlusconi. La soluzione non sta in un grillismo in doppiopetto che si vuole far sposare col montismo.
Oggi in Sicilia si vota. Sono elezioni importanti. Per i siciliani, innanzitutto, che vedono gli effetti della crisi moltiplicati da inefficienze e illegalità. Ma anche per il futuro del Paese. Nella ribellione Grillo si è guadagnato consensi: bisognerà farci i conti e non sarà facile. Tuttavia la partita cruciale è tra Crocetta (Pd) e Musumeci (Pdl): Berlusconi spera di avere una spinta per rilanciarsi.
L’Unità 28.10.12
Pubblicato il 28 Ottobre 2012