Quando la deputata franco-canadese Axelle Lemaire lo presenta come «l’ange de la boue», l’applauso dei delegati si fa più sonoro che sulle parole «ministre» o «secrétaire». L’«angelo del fango» Pier Luigi Bersani sorride sorpreso mentre si avvicina al microfono e ringrazia gli «chers amis, chers camarades» riuniti a Tolosa per i congresso del Partito socialista francese. I collaboratori del leader Pd giurano che loro non c’entrano con l’uscita della giovane Lemaire, che la storia di quando nel ‘66 Bersani andò a spalare il fango nella Firenze alluvionata è arrivata Oltralpe senza spinte da parte loro. Però è in tema. Perché «solidarité» è parola che torna, negli interventi di Bersani, del presidente della tedesca Spd Sigmar Gabriel, di Ségolène Royal, del neosegretario del Ps Harlem Désir. Il concetto è: la linea del rigore rimane un punto fermo, ma la «solidarietà» non può mancare e allora servono anche misure per creare occupazione, che favoriscano la redistribuzione delle ricchezze, che creino maggiore equità. Un discorso che vale tanto per l’Europa quanto, nel ragionamento che fa Bersani, per l’Italia. Che dal 2013 dovrà tornare alla normale «fisiologia democratica», come da ragionamento fatto ventiquattr’ore prima all’Eliseo con François Hollande, cioè a un governo politico, sostenuto da una maggioranza omogenea.
SERVE UN GOVERNO POLITICO
«L’affidabilità e la reputazione internazionale che l’Italia ha recuperato grazie al governo Monti sono stati strumenti essenziali per il ritorno a un circolo virtuoso dice di fronte ai delegati del Partito socialista francese ma perché questo possa mantenersi a lungo termine, e uscire dalla recessione, occorre fare delle scelte a favore dell’uguaglianza e dello sviluppo. Scelte che questo governo tecnico non può realizzare, malgrado i vincoli interni ed esterni». Per questo Bersani sottolinea l’indisponibilità del Pd a sostenere in futuro un altro governo insieme a forze politiche avverse. Per realizzare le riforme necessarie, dice, occorre «ristabilire la fisiologia democratica nel Paese», e «in questo la spinta dei progressisti sarà determinante»: «Quando i progressisti e la sinistra europea sono uniti vincono contro una destra conservatrice, nazionalista e retrogada». Ma questa non sarà la sola «spinta», stando a quella che è la strategia del leader del Pd.
ASSE PROGRESSISTI-MODERATI
Non è casuale la scelta di Bersani di ribadire dal palco del Ps (Hollande vinse le presidenziali francesi anche grazie al sostegno del centrista Bayrou) nel giorno in cui si discute del manifesto targato Montezemolo e sottoscritto da personalità come Riccardi, Bonanni, Olivero, che per lui rimane strategico un asse tra progressisti e moderati. Quello che però non va fatto, per il leader Pd, è coinvolgere l’attuale premier in operazioni politiche finalizzate alla sfida del 2013. «Sul tema, Monti consiglierei di non metterlo nella mischia», risponde ai giornalisti che gli domandano un commento sull’appello di cattolici e moderati per una riconferma del presidente del Consiglio, che per Bersani «è sicuro che alla Bocconi non ci torna». Quanto al manifesto montezemoliano, «queste formazioni, queste personalità, cercano di costruire un’offerta politica centrale, è una cosa che va assolutamente seguita con attenzione. Noi stiamo organizzando le forze progressiste e abbiamo sempre detto che siamo disposti a un dialogo costruttivo».
PRIMARIE APERTE
Bersani insomma guarda già alle politiche di primavera, che dovranno «chiudere definitivamente la lunga stagione populista», e se parla delle primarie è per rivendicare la scelta di farle aperte, approvando anche una deroga allo statuto del partito, perché «il successo delle primarie porterà il successo nelle elezioni politiche» dice, proprio «come è successo in Francia». «Ascoltatemi bene: sono io, il segretario del Pd, che ha deciso di affidare la scelta del candidato premier alla coalizione e agli elettori, perché convinto che servono segnali forti. Il Pd ha deciso di non chiudersi nelle formule tradizionali del Pd e fare primarie aperte per scegliere il candidato premier. Io ho deciso di aprire la competizione a un altro candidato e l’ho fatto nella convinzione che la situazione che si è creata tra le istituzione e i cittadini richiede dei messaggi forti».
Renzi dall’Italia polemizza sulle regole adottate e ironizza: «Quelle francesi sono più semplici delle nostre, se le faccia raccontare». Bersani non ci pensa a replicare. E lunedì farà tappa a Firenze, per una visita all’azienda Selex Elsag. I lavoratori gli hanno chiesto di fermarsi a pranzo. L’appuntamento è alla mezza all’interno della mensa aziendale.
l’Unità 27.10.12
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“Bersani e il senso della sfida alle primarie”, di Onofrio Romano
PARE CHE A SINISTRA IL DISCRIMINE FONDAMENTALE SI COLLOCHI TRA MODERATI E RADICALI. Tra coloro che indulgono, con diversi accenti, alle ricette montiane e quelli che premono per rompere gli argini del rigore e puntare sulla crescita, la redistribuzione del reddito, i diritti. Su quest’ultimo versante, poi, la gara al miglior offerente è spietata. Vi si rivede la scena di quel vecchio film di De Sica in cui il primo in elenco al «giudizio universale» afferma fiero: «Ho dato un milione ai poveri!». E Dio: «Perché non due?». La verità è che la ricetta in tasca non ce l’ha nessuno: si oscilla tra le chimere di un capitalismo tecno-soft e il ritorno ai fasti del vecchio welfare, buonanima.
Ma la sfida all’ordine del giorno è tutt’altra. Bisogna in prima istanza uscire da una lunga stagione nella quale si è puntato tutto sul motto «lasciar fare la società». Questo imperativo, funzionale agli interessi delle classi dominanti, ai padroni dei mercati (finanziari, innanzi tutto), è stato adottato senza indugi dalla sinistra. Pur nella buona fede. Ci siamo convinti, forse a seguito del trauma mai smaltito del socialismo reale, che il problema delle nostre società fosse la politica e che occorresse liberare le buone energie schiacciate sotto il suo peso eccedente. La politica andava recintata nel ruolo di regolatrice del traffico terrestre: da qui, la sostituzione della parola «governo» con l’inglesismo governance. Questa ideologia forte ed egemonica equivale al suicidio stesso della sinistra ed è stata interpretata paradossalmente anche dai suoi settori più radicali. Quale ne è il risultato? Il Sud è sempre più a Sud. I deboli sono sempre più deboli. Non sono affatto lasciati liberi di condurre il proprio gioco, in condizioni di generale equità. Mettere da parte la politica affinché i giovani precari, le donne, i lavoratori (dipendenti e autonomi) possano auto-organizzarsi ed esprimere il loro potenziale significa semplicemente lasciarli in pasto ai poteri forti, che al contrario sono organizzatissimi e ne fanno un sol boccone. È tutta «erba fresca al defoliante» come diceva il poeta.
Ripristinare l’idea stessa di una «politica organizzata» scrive Tronti deve essere il primo obiettivo di una sinistra che voglia tornare ad essere egemone. Sono i forti a mal sopportare le armature dell’organizzazione. I deboli hanno tutto da guadagnarci. Non è un caso che i bacini elettorali della sinistra si siano spostati rapidamente in questi anni dai quartieri periferici delle città alle vie del centro. Al contrario di quanto recitano le nostre pie illusioni, l’assenza della politica non permette ai deboli di diventare autonomi e protagonisti della scena. Quello che avviene nella realtà è tutt’altro: essi finiscono per consegnare tutte le loro speranze di cambiamento all’uomo della provvidenza che promette il cambiamento totale.
La liquefazione della società determina paradossalmente la solidificazione del potere attorno alla figura del leader carismatico. E un leader senza comunità politica è un pericolo per la democrazia, sempre, anche quando è armato delle migliori intenzioni, anche quando è «di sinistra». Egli non può fare altro che barcamenarsi tra le pressioni degli interessi e delle lobby che si esprimono direttamente, senza mediazioni. Così stando le cose, è impossibile cambiare alcunché. Il leader quando è «buono» non può fare altro che sparare «fuochi d’artificio» (festival, lustrini, best practice ecc.) a simulacro del cambiamento, senza alcuna possibilità di intervenire sui nodi strutturali che strozzano le esistenze delle persone.
La nostra Costituzione assegna ai partiti la funzione di «determinare» la politica nazionale. Ora, noi possiamo pensarla come ci pare sui partiti attualmente esistenti. Ma occorre per lo meno porsi una domanda: se togliamo di mezzo i partiti, chi determinerà la politica nazionale? Altri poteri, organizzati a esclusiva tutela dei propri interessi, non democraticamente sanciti o legittimati solo dal magnetismo carismatico. È per questo che è responsabilità di tutti invadere, occupare i partiti e pretendere che il collettivo torni ad essere sovrano sulla realtà.
Le primarie, soprattutto per come vengono svolte da noi, sono sempre uno strumento ambiguo e portatore in potenza di mille distorsioni. Ma qui siamo di fronte ad una sfida decisiva. Abbiamo l’opportunità di archiviare definitivamente il modello anti-politico e leaderista. Quel modello che tanto danno ha procurato al Paese negli ultimi vent’anni e che ha messo radici anche nel campo della sinistra. Abbiamo da un lato due «individui», che si ripropongono stancamente nel ruolo di supereroi in grado di «salvare il mondo» (come se non ne fossimo già stati ulcerati abbastanza), dall’altro chi promette di restituire lo scettro ad una comunità fatta di persone in carne ed ossa, di riportare il potere e la politica dentro una storia collettiva. Di popolo, ma aliena al populismo. Per questo è necessario dare forza a Bersani. Non a lui, personalmente, ma all’idea di politica che egli incarna. Su questo è necessaria una presa di coscienza da parte di tutti coloro che sostengono un’idea di riscatto dei deboli. Anche di coloro che non si identificano nel Pd e ne trovano timida la piattaforma programmatica, reclamando maggiore coraggio e radicalità. Qui è in gioco la ricostruzione della comunità politica della sinistra, anche di quella che travalica il recinto della coalizione impegnata nelle primarie. Se la sinistra non torna a riconoscersi in una soggettività larga e di ampio respiro, sarà difficile per chiunque coltivare aspirazioni di cambiamento o anche solo trovare un luogo nel quale esprimerle e discuterle collettivamente. Questa è oggi la partita. Al Sud più che altrove. Renzi è Renzi. Vendola è Vendola. Bersani siamo noi.
l’Unità 27.10.12
Pubblicato il 27 Ottobre 2012