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"Dalla parte degli insegnanti", di Marco Rossi Doria

Ho letto con estremo interesse quanto ha pubblicato ieri Mila Spicola su l’Unità: insegnanti palermitani si riuniranno oggi per discutere del tema dell’orario da un punto di vista che sento di condividere. Come maestro elementare prima ancora che per il ruolo istituzionale che ricopro. È sempre importante, infatti, quando si creano degli spazi per parlare della scuola e di cosa significhi oggi fare il complesso mestiere di insegnante.
Stiamo lavorando in questi giorni in Parlamento per modificare la legge di Stabilità: sono convinto che non sia pensabile intervenire sull’organizzazione del lavoro dei docenti e delle scuole all’interno delle norme sui conti pubblici, provocando ulteriori perdite di posti di lavoro. Serve una grande discussione nazionale, fondata sulla partecipazione di chi va a scuola tutti i giorni, di chi può offrire, come scrivono i docenti palermitani, una «narrazione collettiva» al di fuori di stereotipi e luoghi comuni. Questa discussione deve basarsi sulla necessità di innovare la nostra scuola e di garantire a tutti apprendimenti solidi in un contesto fortemente cambiato nel tempo.
L’innovazione che serve alla scuola deve fondarsi sulla rottura dello standard – una didattica uguale per tutti – per andare con coraggio verso attività organizzate in modi anche diversi dal gruppo classe, frutto di una programmazione collegiale dei docenti, di una riflessione ed autovalutazione su punti di forza e debolezza delle strategie e azioni messe in campo, come in parte già avviene in molte scuole.
Il tema che la politica e le istituzioni devo- no affrontare è trovare le risorse, mano a mano che l’economia nazionale darà segni di ripresa. Infatti quei Paesi che hanno inve- stito in sapere sono stati quelli che si sono difesi meglio dalla crisi. Conoscenze diffuse, acquisite in modo rigoroso e nuovo, creeranno maggiore crescita.
È in questa visione che può trovare spazio la importante discussione tra i docenti palermitani. So bene, per la mia esperienza, che il nostro dovere non termina alla fine delle lezioni. Ci sono i compiti da correggere, il materiale didattico da preparare. Un progettare e riflettere educativo per il quale serve il confronto nella comunità docente. Oggi, tranne che per la scuola primaria, questo è un lavoro svolto prevalentemente a casa, che dunque fatica ad emergere, ad essere riconosciuto dalla collettività. E ci sono poi le numerose «attività funzionali»: collegi dei docenti, colloqui con le famiglie, riunioni. Attività oggi quantificate con un monte ore annuale. Infine vi sono le attività in più: i corsi di recupero, i progetti inseriti nel piano dell’offerta formativa, le uscite didattiche. Questi sono considerati degli extra – poco e mal pagati – ma sono in realtà parte integrante della vita ordinaria delle scuole.
Ritengo allora che il punto di partenza di un vero confronto sul mestiere di insegnare debba puntare a rendere esplicito, riconoscibile e riconosciuto il lavoro svolto nel suo complesso. Un tema non separabile da quello della retribuzione: i nostri insegnanti sono tra i mal pagati in Europa, non è prevista alcuna forma di carriera e si fatica a riconoscere economicamente e professionalmente chi compie sforzi maggiori in termini di programmazione ed attività. Penso sia inevitabile che anche questi aspetti entrino nella discussione. È tempo di ridare slancio e prospettiva a un dibattito culturale e pedagogico sulla scuola che serve al Paese per il 2020.
L’Unità 26.10.12
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“Scuola: Ichino e Porro tutto questo lo sanno?”, di Mila Spicola
Se un merito ha avuto la proposta dell’aumento delle ore di lezione frontale per i docenti in mezzo a tutti i demeriti, è quello di aver attivato una riflessione doverosa sul tema del riconoscimento collettivo sociale del lavoro dei docenti. Riconoscimento quasi assente per adesso, checchè ne pensiamo noi insegnanti.
Da un sondaggio presentato sere fa nella trasmissione Ballarò viene fuori che il 45% degli intervistati è favorevole all’innalzamento del monte ore frontali dei docenti. E anche molti commentatori noti e letti sono tra questi, da Ichino a Porro. Non sono rimasta sorpresa affatto, perché penso che la “narrazione collettiva” mistificata sul lavoro docente (non dei bachi del sistema, quello sì da aggredire, ma del lavoro del docente) ha ragioni concrete e individuabili. Il più immediato è la semplicità con cui viaggia nelle menti un numero. “18 ore”. Nella mente di tutti, compresa in quella di coloro che di scuola non ne sanno nulla (a parte averla frequentata), si configura sempre la sindrome dell’allenatore della domenica e ciascuno ha la sua ricetta pur sapendone pochissimo. Anche su questa questione delle 18 ore del lavoro del docente. Aggiungo: e perché dovrebbero saperne? Aggiungo ancora: e perché, se dimostrano di saperne nulla, ne commentano? Comunque, andiamo avanti.
Noi docenti ci siamo opposti categoricamente all’innalzamento del monte orario di lezioni. Ma il riconoscimento collettivo del nostro lavoro non può decisamente affidarsi a quel no. L’effetto tangibile è il coro di proteste che si solleva dal paese.
Serve altro. Ben altro. Dobbiamo smontare una “credenza”. E tutti sappiamo quanto è difficile smontare le credenze.Possiamo farlo non con la difesa o l’attacco, ma coi mezzi adulti della contrattazione collettiva del lavoro e delle condizioni contrattuali.
E’ inutile che tutti ci affanniamo a dire ad amici, parenti, tv e giornali, che lavoriamo di più e oltre quelle ore, è inutile che ci affanniamo nel ribadire che la funzione educativa del lavoro docente va oltre le quantificazioni. Non gliene potrebbe fregare di meno a chiunque. In tempi di magra, di precari, di numeri e di quantità. Magari hanno pure delle ragioni.
Non è linguaggio che “passa” nel paese, anche a causa della macchinosità tecnica e organizzativa di un sistema complesso quale è quello della scuola.
Quello che passa è che noi lavoriamo solo 18 ore e non vogliamo lavorare di più. Non credono ad altro e non vedono altro. Ma il nostro dovere, come lavoratori statali, è pretendere in tutti i modi il racconto della verità.
Tutto il resto del lavoro che facciamo oltre le 18 ore di lezione è “discrezionale” agli occhi di tutti, “dipende dalla buona volontà del singolo”. E non è così. C’è una mole di lavoro, non conteggiata nelle 18 ore, condivisa da tutti i docenti, “volenterosi” e non, obbligatoria e quantificabile ma, siccome non rientra nel conteggio “raccontato”, passa in cavalleria nella “credenza popolare” appunto.
Penso che i cittadini italiani (parte della collettività e caricati di tasse) meritano la chiarezza della verità ed è a loro che dobbiamo spiegare, oltre che a Ichino e a Porro, senza presunzioni e frasi scontate, il nostro lavoro, e renderne giustamente conto, cercando di non farci sommergere dalle leggi perverse della comunicazione e dagli stereotipi.
Perchè, a voglia ripetere che il nostro è un lavoro difficile, usurante e impegnativo, che siamo affetti da malattie alle corde vocali e da disturbi psicofisici crescenti da lavoro usurante, a voglia. Non basta, anzi, con una sottile sadismo, sembra quasi una necessaria pena per una colpa non chiarita. Non possono crederci perché la narrazione che si impone, anche nelle menti più acute e pronte, è quella con cui parliamo e su cui dibattiamo: “18 ore”.
E’ dunque una questione di “ore”. L’organizzazione e il monte ore sono discorsi funzionali al racconto nel paese, alla necessaria semplificazione quantitativa dei sistemi di lavoro. E, nel nostro caso, diventa complessa, spesso rimossa dagli stessi docenti, coscienti come siamo che in mezzo alle ore si opera un riduzionismo educativo al quale mai ci vorremmo arrendere.
Però e’ necessario separare la funzione docente, che è una funzione educativa, non quantificabile, non temporizzabile, dalla funzione “docente lavoratore”, perché il lavoro vada riconosciuto e pagato.
Un docente non lavora con la categoria tempo, no, a parte la retorica (per chi legge e non è insegnante) della correzione dei compiti (e per chi è insegnante è vita impiegata a correggere), si è docente soprattutto fuori dalla scuola, quando si legge un libro, quando si va al cinema, quando si vede una mostra, quando si viaggia, quando si nutrono il cervello e l’anima di tutti quegli elementi necessari che poi saranno la cassetta degli strumenti di lavoro. Noi insegnanti, nella funzione educativa, non saremo mai assimilabili a un impiegato. Mai. Se ne facciano tutti una ragione. E invidiateci pure per questo. Non per altro.
Ma nell’organizzazione e nel riconoscimento quantitativo orario dobbiamo mettere dei puntini sulle “i”, perché poi ci fregano su quell’indistinto di cui sopra. Su questo terreno possiamo ragionare, contrattare e recriminare. Non sulla nostra essenza. Sul valore e sulla funzione educativa non c’è nulla su cui ragionare se non la verità che si è insegnanti 24 ore su 24, quella funzione è nostra, è incommensurabile, è libera, è insindacabile e va oltre la morte, perché vive nei nostri alunni, nel bene e nel male.
Il paese, questo pensiero altissimo, sancito nella Costituzione, non può elaborarlo oggi. Non può condividerlo perché ne ha perso il senso, e nemmeno alcuni nostri colleghi, lo sappiamo benissimo.
Ma questo pensiero altissimo va difeso sull’unico terreno su cui oggi si può difendere, quello del riconoscimento del lavoro, e tale riconoscimento, oggi, può passare per un discorso quantitativo avendo chiarala coscienza, noi docenti, che si tratta di un compromesso contrattuale perchè miserevole piano su cui impostare il dibattito del “valore dei docenti”.
Ma se l’attacco alla qualità, al ruolo, al senso e alla funzione viene fatto nel paese nei termini della quantità, e quella quantità riguarda le condizioni del lavoro, allora quello deve essere il terreno di ragionamento. Molti colleghi non sono d’accordo lo so.
Veniamo al succo. Un docente, se proprio volessimo quantificare in ore una professione sostanzialmente non quantificabile e operare un riduzionismo educativo a cui noi docenti non ci siamo mai voluti adeguare, trascorre già adesso a scuola delle ore, aggiuntive alle ore di lezione, in attività certificate e obbligatorie. Dentro il nostro luogo di lavoro noi lavoriamo con foglio di presenza in collegi dei docenti, consigli di classe, dipartimenti disciplinari, organi di programmazione, ricevimenti obbligatori, scrutini. E penso che dobbiamo gioco forza piegarci alla richiesta di formalizzazione di queste quantità prima che ledano la qualità del nostro lavoro.
Quelle che oggi nel contratto sono indistintamente definite come “attività funzionali all’insegnamento”, non sono ore “bianche” o discrezionali ma lavoro svolto effettivamente dentro un luogo di lavoro, appunto. Ichino e Porro sanno a quanto ammontano prima di parlare di “casta”?
Lo so che siamo allergici noi docenti alla misura “oraria” del nostro impegno, però comincio a pensare che in questa allergia quelli che ci rimangono fregati siamo noi. E, come ricaduta diretta, i nostri allievi.
Forse sarebbe il caso di riflettere sulla possibile separazione tra il senso e la funzione educativa docente,- immateriale, incommensurabile, qualitativa – e il senso e la funzione di docente come lavoratore all’interno del sistema complessivo dei lavoratori dello Stato. Funzione questa ultima necessariamente da quantificare in termini di salario, di condizioni, di tutele, di diritti e di doveri. E su quello ragionare. Per parlare su dati e analisi e non su anatemi.
Io non lavoro dentro il mio luogo di lavoro 18 ore, è falso affermarlo ed è falso certificarlo, ma un tot monte di ore settimanali (che superano di parecchio le 24, ma proprio di parecchio) e che per adesso rimangono nel limbo delle “attività obbligatorie funzionali all’insegnamento”.
Mi chiedo: è giusto non conteggiarle insieme?
Posto che sia giusto operare una misura quantitativa delle ore di lezione frontale, così come oggi accade, è giusto non farlo anche per le ore, funzionali a quell’ora, obbligatoriamente svolte a scuola e separarle da quel conteggio? Eppure siamo a scuola a lavorare in quelle ore, non altrove. Chi lo sa? A parte noi docenti? Ichino e Porro lo sanno?
Se faccio un calcolo veloce e per difetto si tratta, in media, di un’ora di attività, corollario obbligatorio dell’ora di lezione, e dunque sarebbero 18+18. Bene che vada. Perché a me è successo di stare per scrutini a scuola dalle 8 del mattino alle 22 per tre giorni di fila. E non sono un’eccezione. Anche il mitico “insegnante lavativo” è obbligato a svolgere quelle ore.
Che tutela ho avuto in quei tre giorni da punto di vista di: salario, tutela della salute, tutela del luogo di lavoro, tutela delle condizioni (spazi, strumenti, condizioni e cibo..)?
Perché non rivendicarlo ufficialmente nel contratto? Non si chiama rispetto personale per il valore del proprio lavoro?
E il tempo? E non sto parlando del “tempo per correggere compiti o preparare le lezioni”, (quello che nessuno di noi ha mai quantificato né lo vorrebbe quantificare pensando che ne scada il “valore educativo della funzione docente”), parlo di ore reali di lavoro a scuola. Decisamente oltre le 18 ore.
Il tempo è un diritto-dovere che va calcolato per tutti i lavoratori del sistema statale. Non è un’offesa al concetto di lavoro minimizzare il tempo, non conteggiarlo? Considerato che tutto il paese ragiona ad “ore”?
Se l’insegnamento non va misurato in ore mi si tolga dal contratto anche il numero 18, o il numero 24. Come ad altre professioni intellettuali: magistrati, manager pubblici, …
A scuola la quantità non coincide con la qualità, lo stiamo ripetendo tutti. Riferendoci all’insegnamento. Ed è vero. Tutto ciò ingenera confusione e fraintendimenti: quale quantità e quale qualità? Come è difficile definire la qualità del lavoro di un magistrato o di un manager pubblico e anche la quantità di lavoro connessa a quella quantità, così è ancor più difficile definirle nel caso del lavoro di un docente. E non bastano le 24 ore a definirlo. E nemmeno una vita. Però siamo in un sistema statale e dobbiamo farlo.
Perché attenti arriva la fregatura: con questa frase, manomettendola, hanno tolto tempo alle ore di lezione dei ragazzi. Proprio con la stessa identica frase. Aggiungi ore ai docenti, ma togli ore ai ragazzi. In palese malafede. Le parole e i tempi sono importanti, vengono manomesse subito se non facciamo attenzione e la fregatura pesa sempre dalla nostra parte.
E allora ragioniamo sullo stesso terreno semplificatorio le condizioni di lavoro. Se è la semplificazione a dover guidare le scelte. Cercando di mantenere intatta la difesa strenua della complessità (in quantificabile, incommensurabile) della funzione educativa. Chiediamo che si formalizzi nella contrattazione nazionale il numero vero di lavoro a scuola intanto, il resto verrà subito dopo. Per un dovere reale e insopprimibile di fornire al paese e ai cittadini che pagano tasse una fotografia reale e non un fotomontaggio.
Non siamo quelli delle 18 ore e nessuno lo sa o vuol saperlo. E’ necessario pretendere il riconoscimento reale del lavoro docente, non di più ma non di meno. Reale: la fotografia adesso. Hic et nunc.
Se il paese legga sulla carta contrattuale e riassuma in un numero vero e non mistificatorio il mio lavoro per quello che è (visto che siamo innamorati dei riassunti, ma che siano fatti bene però). Già adesso è fatto di 28, 30, 35 ore settimanali di lavoro obbligatorio svolto a scuola (e non dipendente dalla mitica “buona volontà del singolo docente”), costituito da ore di lezione, ricevimenti obbligatori, collegi, consigli di classe e d’istituto, programmazioni, scrutini, obbligatori, fino ad arrivare a quella quantità di ore di cui sopra. E se la quantità è 30 ore, di lavoro intellettuale, nei ranghi contrattuali di funzionario dello Stato (tale è il nostro inquadramento) nessuno si permetterà di stupirsi se chiederò adeguamenti salariali (che il paese non vuole darmi..mentre c’è chi addirittura ne ha supposto, in modo giuridicamente sconnesso, la gratuità), tutele per la salute (a partire dal “numero” alunni per classe e dal minimo contrattuale per non ammalarsi), tutele connesse al luogo di lavoro (sempre meno sicuri e vivibili), benefici necessari (buoni pasto o mense). E si parlerà anche di flessibilità ragionando sul vero e non sul manomesso.
Non sarò considerata, come accade di fatto oggi, come “una privilegiata che pure si lamenta”, ma come un’ idiota che non ha rivendicato prima tutto quello che le spetta di diritto. Perché, come diceva mia nonna, “ti trattano sempre per come ti fai trattare”. Beh. Basta.
Eliminiamo anche questa credenza popolare, dopo le streghe, la terra al centro del mondo, le danze della pioggia, eliminiamo anche il 18. Rispetto per la verità e nessun arraffazzonamento ideologico, di sinistra o di destra che sia. Se ci sono dei privilegi che siano tolti (il mitico “docente incapace”? Se c’è scovatelo, con criteri reali e veri, e formatelo; non è colpa mia se c’è e continua indisturbato, per una buona volta, è colpa vostra) i 30 gg supposti di ferie (non 3 mesi, 30 gg)? Allineateli agli altri e datemi però la possibilità, data agli altri, di prendermi permessi durante l’intero anno.
Se volete, cari Ichino e Porro, li spalmiamo durante l’anno come tutti gli altri impiegati e vi creiamo un bel casino organizzativo a casa (posto che un infermiere prende in media 75 gg di permesso retribuito oltre le ferie in un anno, un docente 10 gg, fate una facile somma e poi commentate).
Se volete, oltre alle circa 30 ore svolte adesso a 1.300 euro al mese, metteteci pure ste sei ore in più, come straordinario pagato, considerando la fascia economica di funzionari delle Stato quali saremmo. Perché non parlate a degli idioti e voi, sicuramente non lo siete è logico e matematico che le ore di straordinario di un funzionario dello Stato che ha un contratto di base di 30 ore vadano adeguatamente corrisposte.
Ma se ci sono dei diritti non rispettati (e sono tutti non rispettati in questo momento: salario equo, tutela della salute, salubrità del luogo di lavoro,..continuo?) dovete avere l’onestà intellettuale di raccontarla tutta e per intero la questione, che vengano finalmente messi in campo, sul tavolo contrattuale, quei diritti. E vi assicuro che la bilancia penderebbe dalla nostra parte e altro che atti di generosità al paese abbiamo fatto in questi sessantanni di repubblica . Per quale privilegio?
Ripeto, per noi li potete eliminare tutti quei fantomatici privilegi, perché non ci sono, e anche andare a colpire con la pistola in fronte il lavativo (pistola fatta di formazione in servizio, di riorganizzazione, di controllo e non di anatema demagogico fine a se stesso), ci fareste un enorme favore. E dirmi anche come lo valutate, e poi chiedetemi come valuto io il vostro lavoro, che certo non è pagato con soldi statali ma diffonde commenti in taluni casi distorti da ideologia, da ricordi, da supposizioni personali, ma non basati su dati reali. Eliminiamo, valutiamo e commentiamo, dopo però aver calcolato e verificato la realtà; e se il corollario è che dovreste, insieme all’eliminazione dei fantomatici privilegi (che non ci sono più), assicurare i diritti base, vi dico che non ci sono risorse per farlo.
Il diritto base da verificare è la verità: e cioè che oggi noi lavoriamo a scuola circa 26/30 ore settimanali. E per queste ore siamo decisamente sottopagati.
Se poi, avendo capito che non era il caso di sollevare questo coperchio scandaloso, perché di scandalo si tratta, voi commentatori, vi rendeste conto che forse le cose vanno prima conosciute e analizzate, con pacatezza, con “le carte” sul tavolo, con la comune voglia di migliorare le cose e solo dopo commentaste il tutto fareste solo onore all’onestà dei fatti.
E allora potremmo parlare di qualità del servizio offerto, se il problema è quello, in base ad altri parametri, più adeguati e pertinenti. In modo onesto, maturo e competente. Valutando i sistemi e non il capro espiatorio.
Non è su base oraria che si agisce “sulla casta dei docenti”, quella serve solo a battere cassa, si agisce intervenendo sul sistema di formazione (oggi ridicolo e si apre il baratro sul sistema universitario di formazione), sul sistema di immissione in ruolo (oggi grottesco), sul sistema di formazione e aggiornamento in servizio (oggi assente e affidato alla discrezionalità del dirigente o del singolo). Cercando di eliminare i possibili elementi di discrezionalità.
Ma coloro che devono comprenderlo adesso sono i cittadini, dobbiamo raccontarla a loro la verità, chiedere a loro di valutare dati, analisi, ore e se il paese lo comprende, le forze politiche, i governi, non potranno far altro che prenderne atto, senza strumentalizzare a proprio esclusivo vantaggio le mistificazioni.
Intanto riscriviamo per benino sto contratto dando onore ai numeri e non alle streghe.
l’Unità 25.10.12
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Va rilevata la coincidenza degli argomenti portati da Marco Rossi Doria e Mila Spicola con la mia relazione alla legge di stabilità, che, limitatamente alla questione delle 24 ore di lezione frontale, trovate in questo post https://preview.critara.com/manughihtml/?p=36658