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"Il bromuro all’informazione" di Luca Landò

Attenzione, quello che state per leggere è un articolo diffamatorio. Perché nelle righe finali contiene affermazioni vere ma che risulteranno sicuramente sgradite ad alcune persone. E il punto è proprio questo. Se il disegno di legge sulla diffamazione che il Senato sta esaminando in queste ore dovesse entrare in vigore senza modifiche, un articolo in qualche modo scomodo o sgradito potrà facilmente venire considerato diffamatorio: a quel punto per il giornalista che l’ha scritto e il giornale che l’ha pubblicato si aprirebbero le porte di un inferno burocratico, economico e penale. A cominciare dalla rettifica, che secondo le norme in esame dovrebbe essere pubblicata entro due giorni senza commento e senza tagli: anche se falsa, anche se non documentata, anche se dovesse occupare intere pagine di giornale. Bisogna stamparla e basta. In caso contrario, il direttore si vedrebbe arrivare un ordine di pubblicazione e una sanzione da 15.000 a 25.000 euro. Se poi la notizia è stata pubblicata su un sito, chi si ritiene diffamato può chiederne l’immediata cancellazione dai motori di ricerca, pena un altro ordine di rimozione e una multa da 5.000 a 100.000 euro. Poco importa che il sito abbia ragione e il richiedente abbia torto: prima si toglie, poi si discute.
Superata la fase della rettifica obbligatoria che a differenza di quanto avviene in altri Paesi non servirà a evitare la causa l’autore di un articolo “diffamatorio” rischia di vedersi comminata una sanzione da 5.000 a 100.000 euro con l’obbligo da parte dell’editore di risarcire un danno che non potrà mai essere inferiore a 30.000 euro.
Calcolando che un giornale riceve in media 50-70 querele l’anno, la legge proposta provocherebbe un fatto tanto prevedibile quanto inaccettabile: che mentre le grandi testate potranno comunque scegliere se correre o meno il rischio di affrontare una causa per diffamazione, i giornali medio-piccoli dovranno starne ampiamente alla larga onde evitare di affossare bilanci sempre più in bilico soprattutto in questi tempi di crisi. Un bromuro legislativo su redazioni e libertà di informazione, insomma, ma che solo i grandi gruppi editoriali potrebbero avere la forza di rifiutare. Sempre che vogliano, ovviamente.
Andiamo avanti? Il giornalista che sbaglia, anche se in buona fede, viene trattato come un diffamatore di professione, perché entrambi vengono sospesi dal lavoro (e dallo stipendio). L’unica differenza riguarda la durata della sospensione: da uno a sei mesi se si tratta della prima condanna, da sei mesi a un anno per la seconda e da uno a tre anni per le diffamazioni prodotte in serie.
È vero, il disegno di legge contiene un aspetto positivo perché non prevede più il carcere per chi diffama, tanto che qualcuno l’ha definita legge salva-Sallusti. Peccato che questo innegabile passo avanti sia accompagnato da molti, inaccettabili balzi indietro.
Per liberare un giornalista, insomma, si finisce per ingabbiare tutta l’informazione. Lo hanno detto a chiare lettere commentatori di ogni schieramento politico e provenienza: «Un attentato alla libertà di stampa, una follia assoluta, norme allucinate» (Carlo Federico Grosso, docente di diritto penale); «Un’azione liberticida e dal sapore fascista», (Roberto Siddi, segretario della federazione nazionale della stampa); «L’interdizione dalla professione è fascistoide» (Mauro Paissan); «Una legge pericolosa, una minaccia» (Paolo Gentiloni); «Una normativa intimidatoria, un’indole vendicativa» (Vittorio Feltri), «Norme assurde e pericolose, un disprezzo assoluto per la libertà di stampa» (Giulio Anselmi, presidente della federazione degli editori).
Frasi dure ma realmente pronunciate e che qualcuno, gli autori del disegno di legge ad esempio, potrebbe d’ora in avanti ritenere sgradite se non diffamatorie. A meno che le norme che il Senato sta discutendo in questo momento non vengano cestinate e riscritte. Prima che sia troppo tardi.
L’Unità 25.10.12