L’Italia è sempre il Paese che ama. Solo che adesso ha deciso di amarla in modo diverso. Non più da giocatore ma da allenatore, la sua passione fin dai tempi dell’Edilnord. Fra il discorso della discesa in campo e quello del passo indietro sono passati diciotto anni. Siamo tutti più anziani, anche lui, più spelacchiati e più poveri, tranne lui. Diciotto anni e la stessa metafora calcistica. Allora «scendeva in campo per costruire il nuovo miracolo italiano». Oggi si accontenta di «rimanere al fianco dei più giovani che devono giocare e fare gol». Vista dal campo o dalla panchina, l’Italia di Silvio non cambia: resta un enorme stadio di sua proprietà.
La Discesa in Campo fu affidata a una videocassetta girata nel parco di Macherio davanti a una finta libreria e accanto a un ammasso (mai inquadrato) di calcinacci, che a qualcuno ricordavano un cantiere, ad altri un cumulo di macerie. Per il Passo Indietro, invece, l’uomo delle televisioni ha scoperto il fascino del web, inviando una lettera elettronica dove anche i «po’» si adeguano alla modernità e barattano il timido apostrofo con un più assertivo accento: «Ho ancora buoni muscoli e un pò di testa». Un’altra videocassetta avrebbe prestato il destro a paragoni impietosi con lo smilzo imprenditore berluscottimista che nel 1994 invitava gli italiani a diffidare «di profeti e salvatori» e ad affidarsi a «una persona capace di far funzionare lo Stato». Quell’affermazione, condivisibile, fu probabilmente equivocata: molti votarono il profeta-salvatore credendo fosse la persona capace di far funzionare lo Stato. Purtroppo lo Stato si è rivelato sordo alle intimazioni berlusconiane e diciotto anni dopo funziona peggio di prima. Né ci sono tracce di quell’Italia «più giusta, più generosa, più prospera, più serena, più efficiente e più moderna» che il Più Silvio promise solennemente fra i calcinacci di Macherio.
Cosa è rimasto della telenovela di allora nel discorso del Passo Indietro? Praticamente tutto. Lo spirito, i toni, i nemici. Berlusconi è un maestro nel presentarsi come uno che ricomincia sempre. Il suo non è mai il discorso del reduce, ma del precursore. E della vittima. Nella storia d’Italia secondo Silvio gli ultimi decenni sono stati una guerra fra due schieramenti: da un lato le perfide corporazioni di burocrati, giornalisti, lobbisti e magistrati, conservatori arroccati nella difesa di privilegi antidemocratici. Dall’altro lui, il Libertador, marchiato come populista perché alfiere del «voto popolare conquistato con la persuasione che crea consenso». Persuasione: attività affascinante ma pericolosa, quando a esercitarla è l’uomo più ricco d’Italia, l’unico dotato di tre canali televisivi nazionali e gratuiti. Invece per Silvio è stata «la riforma delle riforme», che ha reso «viva, palpitante ed emozionante la partecipazione alla vita pubblica dei cittadini». Qui l’uomo si sottovaluta. Di viva ed emozionante, ma soprattutto palpitante, in questi anni c’è stata soltanto la sua vita notturna. Purtroppo quel palpito «non poteva che avere un prezzo»: l’odio verso di lui, trasformatosi come nei film horror in una «sindrome paralizzante», il cui antidoto è stata «la scelta responsabile di affidare la guida provvisoria del Paese al senatore Monti». Berlusconi protegge il suo successore, quasi volesse farlo un po’ (o un pò) suo. Non è il preside bocconiano il nemico da indicare ai giovani eredi, ma l’Europa colonizzatrice della Merkel e, come diciotto anni fa, la sinistra. Che nel discorso della Discesa in Campo si ispirava a Michele Santoro e voleva trasformare l’Italia «in una piazza urlante che grida che inveisce e che condanna», mentre in quello del Passo Indietro sembrerebbe richiamare in vita, se non Stalin, almeno Breznev perché «vuole tornare alle logiche di centralizzazione pianificatrice che hanno prodotto l’esplosione del Paese corporativo e pigro che conosciamo». Una sinistra composta da «uno stuolo di professionisti di partito educati (come metà della nomenclatura pidiellina, ndr) nelle vecchie ideologie egualitarie, solidariste e collettiviste del Novecento».
E’ proprio per impedire ancora una volta che l’Italia liberale cada nelle mani dei comunisti che Silvio B ha deciso di fare un passo indietro e assistere da bordo campo alle primarie che incoroneranno il suo successore. «Quel che spetta a me è dare consigli, offrire memoria, raccontare e giudicare senza intrusività». E qui, visto che viviamo ancora in un Paese liberale, chiunque lo conosce è libero di mettersi a ridere.
La Stampa 25.10.12
******
“LA DISFATTA DI UNA POLITICA”, di PIERO IGNAZI
Anche gli “eterni ritorni” alla fine non reggono l’usura del tempo. Ora Berlusconi concede il lasciapassare ai suoi giovani. Possono gareggiare liberi dall’ipoteca del padre padrone. Ma il Cavaliere non scomparirà dalla scena, né si ritirerà alle Bermuda. Rimarrà a vigilare, dall’alto del suo patrimonio e del suo impero mediatico. Semplicemente, non si candida più in prima persona perché andrebbe incontro ad una sconfitta certa. E a lui non piace perdere.
Del resto i sondaggi non davano scampo: secondo l’Swg il 56% non lo voterebbe perché “ha già dimostrato di non essere capace di governare” e un altro 16% perché “lo ha già fatto altre volte”. Inoltre, in una scala di probabilità da 0 a 100, il 60% dichiara una
probabilità zero di votarlo: un rigetto massiccio e senza appello. Del Cavaliere gli italiani non ne possono più.
Evitare l’onta della disfatta personale (anche senza Prodi…) non consente di arrestare il disfacimento della sua politica. Il ciclo ventennale inaugurato nel 1994 si chiude nell’assenza di prospettive, nell’irrilevanza delle proposte politiche e nella vergogna dei ladrocini. Di fronte a questa catastrofe “generazionale”, l’unica risorsa messa in campo è quella nostalgica, del ritorno allo spirito del 1994. L’obiettivo unificante delle anime sparse del PdL è ancora e solo quello: fermare la sinistra, impedire in ogni modo che vada al governo. Peccato che non ci sia più un Pio Pompa a disposizione per mettere in atto “iniziative disarticolanti” come ai tempi belli. Ma forse di uomini di braccio e di brasseur d’affaires ce ne sono ancora in giro, magari meno maldestri di Batman e più consapevoli di Scajola. Però non ci sono più platee disposte a mobilitarsi in negativo, al solo scopo di sbarrare la strada ad altri. Il mondo là fuori è cambiato. Lo scalpo di D’Alema lo ha già ottenuto Renzi. E le mitiche partite Iva, bastione retorico del forzaleghismo che fu, sono ormai disperse, deluse dall’insipienza governativa del centro-destra e disgustate dal malaffare dei dirigenti locali pidiellini. Se nel 2007 gli abili spin doctor della destra erano riusciti a far identificare “la casta” con i politici del centro-sinistra, ora siamo alla nemesi: la Polverini che sgomma nelle vie del centro di Roma a tutta velocità con un’ auto di servizio per andarsi a comperare le scarpe (punto debole delle donne di potere: si pensi alla collezione di Imelda Marcos) simboleggia tutta l’arroganza di questa nuova classe dirigente.
Il mondo dei format televisivi imposti come reality quotidiani, dello stile da convention anche nelle arene internazionali (dal cucù alla Merkel alla rincorsa ad Obama passando per il kapò a Martin Schultz), dell’Azienda Italia e delle tre I è crollato. Il confronto con il governo Monti è impietoso. Anche l’elettorato di centrodestra può confrontare il riconoscimento internazionale dell’attuale governo con l’isolamento nel quale prima era relegato il nostro paese, o comprendere la differenza tra un venditore e un uomo di governo guardando una conferenza stampa.
E tuttavia rimangono in circolo alcuni residui del berlusconismo, e ci vorranno anni perché il corpo politico se ne liberi: l’odio ideologico, per cui tutti quelli che stanno a sinistra
sono dei nemici; il conflitto esasperato a scontro di civiltà; il disprezzo delle regole, inutili e dannosi legacci alla spontaneità e creatività individuale; l’invocazione del popolo contro le istituzioni; l’esaltazione del leader faber e provvidenziale. Non sorprende allora che, secondo un sondaggio Swg, l’elettorato del centrodestra, privo dei suoi riferimenti tradizionali, più di ogni altro abbia in disgusto la politica e invochi un cambiamento
rivoluzionario.
Questo è il risultato di una disinibita sollecitazione dell’antipolitica e di una costante delegittimazione delle istituzioni.
Eppure il Cavaliere insiste nel proporsi come l’interprete dei moderati benché tutta la sua azione politica sia andata in senso opposto, fin dal 1994. Ora, difficilmente i suoi eredi potranno indirizzare il partito verso le sponde di una destra normale visto che due anni fa hanno respinto in blocco quell’ipotesi “cacciando” Gianfranco Fini. Inoltre sono gravati dall’incognita di una lotta per il potere all’interno del partito che si annuncia quantomeno vivace. Se veramente si svolgeranno delle primarie questa improvvisa democratizzazione della vita interna avrà un effetto dirompente (e forse salutare).
Il Cavaliere lascia in eredità una politica polarizzata, radicalizzata e inquinata, un paese economicamente e socialmente malconcio, un partito incerto e diviso. Una eredità pesante per i suoi “giovani”.
La Repubblica 25.10.12
Pubblicato il 25 Ottobre 2012