Uno dei provvedimenti contenuti nella legge di stabilità, che è stata presentata dal governo al parlamento in questi giorni, prevede l’ aumento dell’orario di insegnamento per i docenti delle scuole medie e superiori da 18 a 24 ore settimanali. Il provvedimento è stato in buona parte trascurato dai media o, in altri casi, ne ha raccolto il plauso. Tale disinteresse o, ancor di più, tale approvazione evidenziano, purtroppo, una scarsa comprensione del significato e delle implicazioni dell’intervento, che risulta essere criticabile per diverse ragioni.
In primo luogo, l’intervento è criticabile perché si fonda su un presupposto falso. Le 18 ore di lavoro in aula rappresentano solo una parte del lavoro degli insegnanti, a cui si affiancano le ore relative connesse all’attività didattica (consigli di classe, scrutini, colloqui con i genitori, correzione e valutazione delle verifiche scritte) che sono proporzionali alle ore della didattica stessa. Ciò implica non solo che le ore effettivamente lavorate dagli insegnanti sono ben più di 18, ma anche che l’incremento di lavoro con il passaggio a 24 ore di lezione non sarà limitato alle sole 6 ore aggiuntive svolte in classe e comporterà un aggravio ben più significativo che accrescerà di un terzo tutte le attività svolte dai docenti.
L’intervento proposto, d’altra parte, appare discutibile anche con riferimento alle sue finalità. L’incremento delle ore di lavoro dei docenti a parità di salario viene, infatti, giustificato con la necessità di recuperare risorse (secondo alcune stime più di un miliardo di euro), che servirebbero solo in minima parte a ridurre la spesa pubblica e che sarebbero, invece, per la maggior parte reinvestite nella scuola per risolverne i problemi di funzionamento o le difficoltà connesse alle gravi mancanze dell’edilizia scolastica.
La logica appena descritta appare molto discutibile. Se la scuola ha in questo momento bisogno di investimenti, necessari per garantirne la sicurezza o, in alcuni casi, la stessa regolare prosecuzione dell’attività, i vantaggi che da essi deriverebbero ricadrebbero direttamente sugli studenti e indirettamente sull’intera società. Appare, quindi, evidente che gli investimenti nella scuola debbano essere a carico di tutti e non solo di alcuni lavoratori che hanno l’unica caratteristica peculiare di lavorare al suo interno.
Con riferimento, invece, alle risorse destinate alla riduzione della spesa, il cui valore si attesta per il 2013 a 182,9 milioni di euro, si può rilevare come la legge di stabilità preveda per il 2013 anche un intervento a favore delle scuole non statali per un valore pari a 223 milioni. Prescindendo dalle finalità di tale intervento, che sono certamente motivate, sembra evidente come, in una fase in cui si richiedono forti sacrifici, una decurtazione di questa voce rappresenti una fonte alternativa molto ragionevole per la riduzione della spesa pubblica da finanziare tramite il settore scolastico.
Le considerazioni precedenti sono già di per se stesse sufficienti a mostrare i forti limiti dell’intervento del governo. Ad esse, peraltro, se ne aggiunge un’ultima che appare fra tutte forse la più importante. Negli ultimi anni la scuola italiana ha visto ridurre in modo ingente le risorse ad essa dedicate, in alcuni casi mettendo in gravi difficoltà lo svolgimento stesso della didattica. L’ultima cosa di cui oggi la scuola ha bisogno è di demotivare la classe insegnante, già dequalificata da stipendi inadeguati, dicendole che la sua retribuzione oraria sarà ridotta di un terzo a partire dal prossimo anno. Probabilmente il miglior intervento per garantire che la scuola perda anche la sua ultima risorsa.
da www.nelmerito.com