Carboidrati, proteine, niente grassi, questa è stata la sua ultima cena prima dell’incontro della vita. Il dettaglio alimentare che racconta la serietà, e dunque la paura, con la quale ha affrontato la partita di ritorno.
“Barry”, come si faceva chiamare da ragazzo per nascondere quel suo nome arabo–africano troppo diverso e un po’ inquietante, sapeva che se avesse perduto anche il secondo round di dibattiti contro Romney per lui sarebbe suonata la campana. Si è preparato per tre giorni chiuso in un albergo resort della Virginia, accanto a Williamsburg, la finta città coloniale luogo di turismo storico, con gentiluomini in tricorno, fabbri ferrai e gentildonne in crinoline. Ha consumato pasti studiati da un preparatore atletico, calorie ridotte, molta energia, facile digeribilità, molto pollo, filet mignon e patate al vapore.
Ha studiato come non studiava da quanto tirava gli “all nighter” a Harvard, le notti bianche prima degli esami. Non ha sbuffato come aveva fatto alla vigilia del primo – “what a drag”, che palle, aveva confessato – è salito sul ring con l’occhio lucido e vigile, i riflessi pronti, le battute ben temperate e ha vinto. E ora deve aspettare, per sapere se la battaglia vinta di martedì sera basteranno per rovesciare le sorti della guerra che stava volgendo contro di lui, scandite dal ticchettio sinistro dei sondaggi.
I molti Machiavelli dilettanti che infestano i media erano arrivati a insinuare che il disastro del primo incontro fosse stato uno stratagemma tattico, studiato per creare nel nemico un falso senso di sicurezza. Ma le cronache della preparazione che ha preceduto i due incontri raccontano una verità molto più semplice. Il Presidente aveva sottovalutato l’avversario. La sua arroganza intellettuale, la sua certezza di essere nel giusto di fronte all ‘opportunismo spudorato di Romney, acrobata passato dalla destra al centro, lasciandosi dietro una lunghissima coda di contraddizioni, gli aveva fatto pensare di potergli semplicemente dare la corda per impiccarsi.
Ma la corda è attorno al collo di Obama ed è la storia del suo regno quadriennale. L’avversario, che rappresenta l’opposizione, può fare qualsiasi promessa, raccontare ogni favola, sparare programmi senza controprova, come è prerogativa ogni opposizione. L’“incumbent”, il politico in carica, Obama, porta appesi al collo i risultati del proprio governo. Se i risultati economici sono buoni, come furono per Clinton o per Reagan o per Bush il Giovane, la sua posizione è inattaccabile. Se sono cattivi, come furono per Carter o per Bush il Vecchio, non ci saranno preparatori atletici, sparring partner, diete che potranno salvarlo.
Da una posizione di vantaggio, il capo del governo in carica si trova a dover competere portando l’handicap della realtà e soltanto un’eccezionale scatto di vitalità e di passione nei dibattiti faccia a faccia possono ridurlo. Quello che Obama non fece nel primo e ha fatto nel secondo. L’handicap si è ridotto, ma non è stato annullato. Il timore dei suoi sostenitori è che la resurrezione del Presidente sia stata «troppo poco, troppo tardi».
Ma almeno si è visto un uomo vivo, un uomo che non ha respinto, ma si è assunto la responsabilità di quanto di buono ha fatto e di buono non è riuscito a fare. È uscito dalla gabbia del “primo presidente afroamericano” per incarnare soltanto il “Mister President”, di tutti, bianchi, neri o gialli. Nel linguaggio del corpo, nello sguardo, nella forza dei gesti, ha comunicato di voler ancora, fortemente, guidare l’America per i prossimi quattro anni.
Ha evitato i piccoli, micidiali errori che avevano preceduto il primo incontro. La scelta di Las Vegas, Sodoma e Gomorra di plastica e neon, gli è stata rinfacciata. A Las Vegas non si va per la “notte prima degli esami”.
Questa volta, nel “resort” virginiano – scelto anche perché la Virginia è uno degli Stati che tengono le chiavi della prossima Casa Bianca, evocativo di antiche virtù americane – gli avevano costruito un set identico a quello sul quale avrebbe incontrato Romney. Avevano richiamato in servizio una signora, già collaboratrice, per fare la parte della moderatrice, Candy Crowley. A Kerry, il simulatore e imitatore di Romney, era stato ordinato di attaccare, di essere aggressivo, di comportarsi da “lupo alfa”, come infatti avrebbe poi fatto il repubblicano, duellando per il controllo del territorio, cioè del palcoscenico, con l’altro “alfa” di fronte alle domande del pubblico. E mentre lo chef presidenziale, sotto la sorveglianza delle First Lady, grigliava filet mignon e petti di pollo per la pasta, “Barry” ordinava luride pizze per tutti gli avventori dei locali nei quali si fermava durante lo jogging quotidiano.
Un campo da Muhammad Ali, interrotto soltanto la sera prima del dibattito, per stare con gli amici più veri e intimi, a chiacchierare di sport, di ricordi, di nulla, per rilassare il cervello.
Il risultato si è visto ed è stata l’impressione, fondamentale per motivare le proprie truppe sparse nei collegi elettorali d’America, che il proverbiale “fuoco nella pancia” si sia riacceso. Mancano ancora un incontro, vicinissimo, lunedì prossimo, nella “Fatal Florida” che sconfisse Al Gore nel 2000 e poi il nuovo dato sull’occupazione, venerdì 2 novembre, appena quattro giorni prima del voto. “Barry is back” hanno ammesso anche gli avversari, Barack è tornato, ma non è stato il “Terminator” della leggenda cinematografica e il tempo si accorcia. Se il prossimo dibattito, e i dati del 2 novembre, fossero negativi per lui, il cappio di questi suoi quattro anni poco brillanti, si stringerebbe definitivamente. Perché, come sempre, alla fine sarà l’economia a decidere.
La Repubblica 18.10.12