Lo sferzante articolo di Francesco Merlo comparso in queste pagine (“Togliamo alla Sicilia lo Statuto speciale”) colpisce al cuore il tabù delle Regioni a statuto speciale, scoperchiando la pentola della fallimentare super-autonomia siciliana. Alla sua serrata argomentazione si può aggiungere una pennellata sul versante della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale. Quando la Costituente discuteva il testo di quello che fu poi l’articolo 9, dalla Sicilia venne il meglio e il peggio. Il meglio venne nella persona di Concetto Marchesi, latinista catanese, rettore a Padova e deputato comunista, che col democristiano Aldo Moro tenacemente propose e difese l’idea, tutt’altro che scontata, che la tutela trovasse posto fra i principi fondamentali dello Stato. La prima bozza del testo si ispirava a una più generica formulazione nella Costituzione della Repubblica di Weimar (1919), ma cambiò molto prima di raggiungere la forma attuale: l’Italia fu così prima al mondo a porre questo tra i principi fondamentali dello Stato, come poi molti Stati han fatto. Ma dalla Sicilia venne anche il peggio: perché nel suo primo Statuto regionale (approvato con Regio decreto n. 455 del 15 maggio 1946, ben prima della Costituzione) la Sicilia avocava a sé il potere esclusivo su “turismo, vigilanza alberghiera e tutela del paesaggio, conservazione delle antichità e delle opere artistiche, urbanistica, lavori pubblici e musei” (articolo 14). L’Italia era in macerie, la Repubblica nasceva il 2 giugno 1946, la Costituente si metteva al lavoro, ma in Sicilia era già cominciata, pur con gli scarsi mezzi economici di allora, l’aggressione selvaggia al territorio. È quello che disse Marchesi in aula, quando per un breve momento parve che l’articolo 9 venisse cancellato dal testo della Carta perché superfluo: chi potrebbe mai negare, sostenne il democristiano Clerici, questo principio fissato «già nella legislazione pontificia dall’editto Pacca, che segnò quasi 150 anni or sono l’esempio a tutta la legislazione moderna»?
La durissima reazione di Marchesi dà la temperatura di quel che stava già accadendo in Sicilia, esempio lampante, egli disse, del forte rischio che «interessi locali e irresponsabilità locali abbiano a minacciare un così prezioso patrimonio nazionale » (l’Assemblea reagì con «vivi applausi»). «Le esigenze locali reclamano restauri irrazionali o demolizioni non necessarie », continua Marchesi, e proprio per questo «ho proposto quell’articolo nella previsione che la raffica regionalistica avrebbe investito anche questo campo delicato del nostro patrimonio nazionale », usando l’autonomia siciliana come punta di diamante. La Costituzione accolse l’idea di una tutela a livello nazionale, ma i timori di Marchesi erano più che giustificati: la Sicilia riuscì a svincolarsi da ogni soggezione a Roma nel settore con due decreti “balneari” del 30 agosto 1975 (Dpr 635 e 637), emanati, paradossalmente, a pochi mesi di distanza dall’istituzione del ministero dei Beni culturali (29 gennaio 1975). Pochi italiani lo sanno, ma da allora il ministero dei Beni culturali nulla può in Sicilia (e solo in Sicilia), dove l’assessore regionale ha tutti i poteri del ministro. Anche le amministrazioni sono separate: Messina e Reggio sono due fondazioni calcidesi in stretta simbiosi almeno dal VII secolo a.C. e distano pochi chilometri, ma un archeologo che lavora a Messina non può essere trasferito a Reggio, e viceversa, come se lo Stretto fosse una frontiera. Il sogno della Lega, di incatenare al perimetro regionale docenti e impiegati, da quasi quarant’anni è qui una realtà.
E il respiro regionale si fa sentire: i funzionari dei Beni culturali sentono sul collo il fiato dei politici, le Soprintendenze sono state di fatto degradate da centri tecnicoscientifici di ricerca e tutela a organismi politico-amministrativi a misura di collegi elettorali, il degrado del territorio e gli sprechi sono sotto gli occhi di tutti. Giuseppe Voza, storico Soprintendente a Siracusa, ha scritto che “l’abusivismo è stato dilagante, mostruosa l’industrializzazione e sconsiderata la gestione del territorio nel quale il patrimonio archeologico e monumentale è quasi totalmente abbandonato a se stesso”. Un assessore (Antinoro) che si ripromette di cedere integralmente ai privati la gestione dei beni culturali della Sicilia, un presidente (Lombardo) che ipotizza di cedere i siti archeologici in Val di Noto alla compagnia petrolifera russa Lukoil, un sindaco (Zambuto) che si chiede se sia meglio cedere i templi di Agrigento al magnate russo Prokhorov o metterli all’asta da Sotheby’s: questi e altri deliri dovrebbero portare alla ribalta nazionale l’enormità di un degrado, etico e culturale prima che politico.
Eppure la Sicilia fu all’avanguardia nel settore. Qui il vicerè Bartolomeo Corsini emanò nel 1745 l’Ordine del Real Patrimonio di Sicilia che tutelava insieme i boschi alle pendici dell’Etna e le antichità di Taormina (primo esempio al mondo di tutela congiunta di monumenti e paesaggio: proprio come, due secoli dopo, nell’articolo 9 della Costituzione). Il Corsini era fratello del cardinal Neri Corsini, artefice del “patto di famiglia” Medici-Lorena che in quegli anni assicurò la permanenza a Firenze delle collezioni medicee. Entrambi erano nipoti del papa Clemente XII, il fondatore dei Musei Capitolini: dalla Sicilia a Roma a Firenze, questo piccolo spaccato di famiglia mostra come il “modello Italia” di tutela nascesse di concerto da Palermo a Roma a Firenze. E fu in Sicilia che nacque quella Regia Custodia delle Antichità di Sicilia (1778) che è il più importante “precedente” delle Soprintendenze italiane. Nell’inerzia degli ultimi ministri (qualità in cui Ornaghi è ben deciso a battere ogni primato), chi si ricorderà che la formazione e il reclutamento del personale, i criteri e le pratiche della tutela, il carattere tecnico-scientifico degli uffici preposti devono essere identici in tutta Italia? L’autonomia siciliana, ha scritto Francesco Merlo, “è un delitto, lo strumento attraverso cui i siciliani vengono asserviti”, e alla sua mercé è posto l’immenso, preziosissimo patrimonio culturale e paesaggistico dell’isola. Riportiamo dunque in Italia una Sicilia che sembra essersene staccata, come per un perfido processo tettonico che nessun ponte sullo Stretto potrà sanare. Perché non abbia ragione anche oggi Claudio Maria Arezzo, uno storico del XVI secolo che, quando fu chiusa la Camera Regionale di Siracusa a cui erano affidati i rapporti commerciali con la Spagna, commentò così: «Ora che siamo disgiunti, non ci dovesse capitare che siamo congiunti all’Africa? ».
La Repubblica 16.10.12