La Seconda Repubblica sta finendo come è finita la prima. Sono passati vent’anni. E l’opinione pubblica è nuovamente di fronte a vicende giudiziarie che riguardano la politica. O, meglio, una parte della politica. La caduta della Prima Repubblica fu una tragedia per la statura dei leader coinvolti, questa sembra una farsa per la variopinta galleria di personaggi, talmente improbabili da sembrare caricature di loro stessi.
Colpisce l’analogia tra le due epoche: nella primavera del 1992 la leva per scardinare il sistema politico, messo alla sbarra dalla magistratura e dall’opinione pubblica, fu individuata nella riforma elettorale. La convinzione era che il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario, insieme all’abolizione delle preferenze, avrebbe fatto pulizia. Com’è andata a finire, dopo due decenni, è sotto gli occhi di tutti. Oggi, la speranza è di nuovo affidata a una riforma elettorale, che, paradossalmente, potrebbe segnare il ritorno al vecchio sistema proporzionale e alle preferenze. Cioè, a quelle norme abrogate anni fa.
Il punto è che non c’è norma che tenga fronte alla spudoratezza. D’altronde Franco Fiorito che nell’immaginario collettivo ha occupato il posto che fu di Mario Chiesa è stato eletto con decine di migliaia di voti. E probabilmente sarebbe diventato consigliere anche se candidato in un collegio uninominale. La legge, d’altronde, può essere un deterrente ai reati, ma può solo sanzionarli, non prevenirli.
Proprio la storia degli ultimi vent’anni dovrebbe insegnare che nemmeno il miglior sistema elettorale può placare famelici appetiti. Non bastano le riforme elettorali a diradare le nebbie e far uscire i partiti dall’atmosfera cupa che li avvolge. L’unico antidoto è dato dalla buona politica e dalla consapevolezza che questa è l’unico strumento per un reale cambiamento. Per cambiare non basta l’adesione a un rito di espiazione collettivo, un grido isolato di sdegno. La metà degli elettori che non è in grado (o non ha voglia) di scegliere un partito rappresenta un’evoluzione degenerativa, che si alimenta delle vicende di cronaca giudiziaria ma anche del dissolversi di opzioni alternative. Se tutto appare grigio, nessuna scelta è utile. I processi cognitivi e decisionali hanno bisogno di campi di contrasto chiaro che agiscono sullo stesso terreno. Oggi, invece, le polarità che si oppongono operano su piani diversi e mettono di fronte la politica e l’antipolitica, i politici e i tecnici, la partecipazione e l’astensione. Tutto ciò spinge l’Italia fuori dall’orbita delle democrazie mature. Per l’opinione pubblica il centrosinistra, guidato dal Pd, sembra essere l’unico soggetto iscritto in un campo politico. Sul lato opposto c’è Grillo, oppure l’astensione. Mentre la parte che per vent’anni ha rappresentato l’altra quota del bipolarismo (il centrodestra a marchio Berlusconi) non esiste più, liquidata dal suo stesso ispiratore e fondatore. La corsa del Pd è solitaria. Non ha un competitore su cui misurarsi, con cui confrontarsi, da cui prendere le distanze e tentare la volata. E questo, alla fine, è un danno per la democrazia e per lo stesso partito di Bersani.
Il modello che per vent’anni ha significato per gli italiani scegliere tra centrosinistra e centrodestra, oggi non c’è più. Al suo posto un ventaglio di possibilità che non rappresentano alternative dello stesso campo. Anche i sondaggi riflettono la distonia del sistema. Gli elettori che dichiarano il proprio orientamento di base (centrodestra o centrosinistra) si dividono quasi a metà, con una leggera prevalenza dello schieramento progressista. Ma quest’orientamento non ha riscontro con le intenzioni di voto, che tendono, invece, a disporsi prevalentemente verso il Pd e il centrosinistra.
L’ABISSO
La distanza tra le due principali forze politiche supera ormai i tredici punti percentuali. Un abisso. E mentre il Pd continua a crescere in termini di consensi, il Pdl continua a perdere voti, tanto che pochi punti percentuali dividono il movimento di Grillo dal partito di Alfano e Berlusconi. L’apertura di quest’ultimo alla nascita di un polo moderato che faccia riferimento a Mario Monti s’innesta in questo scenario di dissolvenze. L’obiettivo, evidentemente, è quello di spostare la messa a fuoco sulla scelta tra «politica» e «tecnica». Perché, se la contrapposizione dovesse essere solo sul piano politico, il centrodestra al momento sarebbe destinato alla sconfitta. Così come non potrebbe reggere una competizione basata sul confronto tra politica e antipolitica, perché l’astensionismo e la grillo-ribellione diventerebbero, nell’opinione pubblica, l’alternativa al centrosinistra. Sostenere i tecnici, per beneficiare dei consensi che continua ad avere il governo, deve essere sembrata l’unica strada percorribile a un centrodestra in deficit di elettori e di leadership. Nonostante le differenze con Monti su temi fondamentali come l’economia, l’Europa, la giustizia. E indipendentemente dalle reali intenzioni di Mario Monti. Ciò che conta, per il centrodestra, è scegliere un terreno di gioco.
E una parte del campo dove iniziare la partita. La decisione di Berlusconi, ben lungi dall’essere un semplice passo indietro, rappresenta il tentativo di cambiare i termini della competizione e far diventare i tecnici l’alternativa al centrosinistra. Ma la tattica, finalizzata a una quadratura provvisoria della contabilità elettorale, ha un respiro corto, come hanno giustamente fatto notare Casini e Fini. La nascita di un polo moderato può recuperare, invece, una visione strategica e un respiro lungo, nel momento in cui l’alternativa è tra visioni politiche che si misurano sullo stesso campo. E ciò gioverebbe anche al centrosinistra, per vent’anni perimetro variopinto dell’alternativa al berlusconismo. Tanto eterogeneo che, anche quando ha vinto le elezioni politiche, ha dato vita a governi con spazi di manovra ridotti al minimo a causa delle contrapposizioni e dei veti incrociati dei partiti.
Il «polo moderato» ha molti nodi da sciogliere prima di poter rappresentare la sponda politica che si contrappone a quella democratica e socialista. A cominciare da questioni fondamentali: lo sviluppo, il ruolo dello Stato, il funzionamento dei mercati, l’Europa, l’euro, l’immigrazione, la giustizia, il welfare. Mario Monti rappresenta una scorciatoia, non un denominatore comune che tenga insieme visioni diverse o contrapposte.
PROPOSTE DI GOVERNO
Per il momento è tattica. Ma il nuovo scenario, seppur ipotetico, impone un’accelerazione anche al Pd e a tutto il centrosinistra, rispetto a quella che sarà la cifra della proposta di governo. E questo indipendentemente dall’esito delle primarie. La politica del centrosinistra deve trasferirsi dal piano delle procedure e delle alleanze, a quello della proposta politica, dando sostanza a un programma chiaro rispetto ai temi del lavoro, dello sviluppo, dell’ambiente, delle politiche pubbliche, dell’uguaglianza. Argomenti chiave che han-
no pagato il prezzo prima al berlusconismo, poi alla coabitazione forzata nel governo dei tecnici. Ora, però, hanno bisogno di esprimersi compiutamente per rappresentare un’offerta politica. E, per fare questo, bisogna mettere un punto alla favola delle scelte tecniche neutrali, perché nemmeno la tecnica è neutra nel momento in cui agisce in una determinata direzione. Bisogna far tornare, cioè, la politica alla responsabilità delle scelte, perché è l’unica strada per invertire il deterioramento del sistema. Il problema dell’Italia non è la domanda, ma l’offerta politica, problema che ha il suo punto di ricaduta nell’inaspettato protagonismo di personaggi che non troverebbero mai spazio in un sistema in cui gli anticorpi del controllo sociale fossero in grado di contrastarne la diffusione. Anche la crisi economica attende delle risposte forti. Le grandi corporation che influenzano i destini degli Stati nazionali possono essere contrastate solo da una politica che si nutre della partecipazione di milioni di cittadini, che ha il respiro dei popoli che scelgono con consapevolezza il loro futuro.
L’Unità 15.10.12