Ma dove viviamo? Ciò che vediamo a Milano, con l’evidenza dell’incredibile, non deve farci dimenticare il quadro d’insieme. In meno di un mese è saltato per aria il governo della Regione Lazio, affondato nell’abuso privato del denaro pubblico e nell’estetica esemplare di una politica ridotta a festa onnipotente ed esibizione impunita, la Finanza è entrata negli uffici regionali dell’Emilia e del Piemonte, un assessore della Lombardia è finito in carcere perché comprava i voti direttamente dalla ‘ndrangheta, una grande città come Reggio Calabria è stata commissariata perché i clan comandavano la cosa pubblica. Stiamo tornando al ‘92, vent’anni dopo, dicono tutti. In realtà, è molto peggio.
Siamo infatti davanti a un pervertimento della politica, divenuta per molti un mestiere, un sistema di collocamento ad alta rendita, dove spariscono valori, ideali, tradizioni e difesa di interessi legittimi, i quattro elementi che fanno muovere le bandiere di un partito e parlano ai cittadini, offrendo identità, testimonianza, partecipazione e rappresentanza. Qui si ruba per comandare e si comanda per rubare. La politica troppo spesso è ridotta a strumento del potere, meccanismo di supremazia, sistema di garanzia. Le istituzioni, invase e dominate in molte parti d’Italia da questa nuova classe di potentati famelici, diventano semplicemente il luogo fisico dove avviene questo scambio sotterraneo e continuo tra una politica disincarnata da ogni dignità e l’arricchimento dei singoli o delle loro bande. L’unico vero punto in comune con il ’92, è la perdita di efficienza della nostra macchina democratica, che gira a vuoto e non produce risultati proprio perché alimentata in troppe sue parti da una politica che ha obiettivi diversi dalla funzionalità istituzionale, e perché la corruzione alza i prezzi, uccide la concorrenza, sottrae risorse e mentre soffoca ogni autonomia estende il ricatto, la sottomissione e la paura. Siamo una democrazia pesantemente infiltrata e condizionata, abbiamo dovuto imparare a dubitare della selezione della nostra classe dirigente e oggi tocchiamo con mano che anche il giudizio supremo del popolo sovrano, attraverso il voto, rischia di non essere libero e trasparente, per l’infiltrazione dei clan mafiosi e il loro mercato delle preferenze.
Che tutto questo accada a Milano è per molti finalmente uno scandalo. Ma quando comincia e dove finisce questo scandalo? Davvero solo oggi veniamo a sapere che il Nord è infiltrato, quando soltanto negli ultimi due anni sono stati sciolti i Consigli comunali di Rivarolo Canavese, Bordighera, Ventimiglia e Leinì? E non è uno scandalo retroattivo l’indignazione governativa della Lega e dei suoi alleati, un anno fa, quando Roberto Saviano denunciò la fine dell’innocenza mafiosa del Nord e la Rai si piegò ad una puntata di riparazione con il ministro dell’Interno Maroni che recitava le sue giaculatorie ideologiche in diretta? La stessa Lega che oggi si indigna e fa la voce grossa ieri fingeva di non vedere quel che tutti sapevano. Una vera forza politica legata al territorio avrebbe invece avuto il dovere della responsabilità: denunciare il pericolo, chiamare alla vigilanza, organizzare una difesa, una ripulsa popolare e un’azione di contromisura, visto che governava le tre grandi regioni del Nord, una moltitudine di città e guidava il Viminale.
Bisogna avere il coraggio di dire che la vera “infiltrazione” mafiosa è nella politica. I verbali delle intercettazioni telefoniche tra i boss calabresi arrestati per i voti comprati e venduti a Milano parlano chiaro. Le preferenze si pagano a tariffa (50 euro l’una), le mafie garantiscono quasi sempre il risultato e l’elezione del candidato sponsorizzato dal crimine diventa a questo punto un affare perpetuo, per tutti. La presenza mafiosa infatti non si esaurisce con la raccolta dei voti ma si trasforma in ricatto permanente, che mette il politico nelle mani dei clan, i quali pretendono di essere ricompensati con il denaro degli appalti pubblici. È lo stesso meccanismo delle varie P3 e P4 che abbiamo visto crescere e prosperare negli anni della decadenza attorno al potere declinante di un berlusconismo indebolito dai ricatti e dalle paure: debolezze crescenti, favori continui, personaggi pericolosi, ricatti permanenti e appalti richiesti, promessi, assegnati e goduti, con avide risate di felicità notturna quando il terremoto fa tremare L’Aquila.
Bisogna pur dire che il sistema Fiorito a Roma e l’asservimento mafioso dell’assessore Zambetti a Milano prosperano all’ombra del centro-destra, quasi che la decadenza di quel mondo avesse aperto le porte a qualsiasi abuso, dopo che gli anni della dismisura berlusconiana avevano abbassato la soglia della tolleranza e addormentato ogni capacità di reazione. Come ha detto l’ex ministro Galan, “volevamo fare la rivoluzione liberale, e siamo finiti con le teste di maiale”. Ma la sinistra sta ancora balbettando ogni volta che deve pronunciare il nome di Penati, di cui noi chiediamo dal primo giorno le dimissioni dal Consiglio regionale. E Di Pietro dovrebbe prima o poi spiegare alla sua gente quel tocco da Re Mida che gli fa scegliere ogni volta ladroni o voltagabbana da infilare sorridendo nelle sue liste.
Vent’anni fa il sistema politico si sentiva forte, prima di Tangentopoli, tanto da creare un meccanismo di mazzetta naturale e obbligatoria per un’imprenditorialità abituata comunque a essere gregaria e nient’affatto indipendente e libera. Oggi la situazione è molto più grave, se si possono fare classifiche di questo tipo. La politica indebolita è presa a schiaffi dalla criminalità che la possiede nelle sue parti più avide e più fragili, e mentre la domina la disprezza. Il disprezzo dei boss per i politici è la cosa che più colpisce nei verbali di Milano, è la vera cifra dell’epoca. I capiclan si raccontano la scena dell’assessore impaurito quando gli mostrano il “pizzino” del patto scellerato, “piangeva, per la miseria, si è cagato sotto, cagato totale”. Si trasmettono giudizi definitivi: “’sti politici di merda, piccoli e grandi, sono uno peggio dell’altro”. Si vantano: “Grazie a questi spiccioli è stato eletto, altrimenti sai quanto prendeva?”.
Minacciano: “Gli facciamo un culo così”. E infine si rassicurano: “Guarda, Zambetti ce l’abbiamo in pugno”.
Certamente il senso d’impunità seminato in questi anni, l’elogio continuo del malandrino, l’irrisione del moralismo e di ogni giudizio etico, l’attacco al principio di legalità, il sentimento dell’onnipotenza giustificato dall’esercizio del potere spiegano molte cose. Ma è soprattutto la perdita di autonomia della politica, l’indebolimento del suo significato e lo stravolgimento della sua natura (ridotta a pura infrastruttura per la raccolta del consenso prima, e poi per l’esercizio del comando) che ci hanno portati fin qui. In questo senso la democrazia formale è stata salvata, ma la sua sostanza è deperita sotto le sembianze apparentemente intatte. C’è dunque una politica che ha rinunciato a se stessa, diventando pura tecnica di un potere economicopolitico indifferenziato. Perché stupirsi se questa tecnica gregaria e autoriferita, svuotata di ogni valore, di ogni realtà autenticamente popolare, dunque di ogni controllo, finisca in mano a quell’altra gigantesca macchina di potere e di denaro che nel nostro Paese è la criminalità organizzata?
La nostra democrazia era corrosa dalle tangenti nel ’92, oggi è malata. C’è la possibilità di salvarla, prima di tutto evitando i giudizi sommari che impediscono di capire, dunque di distinguere, quindi di giudicare e infine di scegliere con il voto. La parola “casta” è uno degli inganni della fase in cui viviamo, perché annulla questa capacità di distinguere e di discernere, crea il fascio che tutto accomuna, disarmando il cittadino quando lo indigna a vuoto, perché gli fa credere che il cambiamento sia impossibile o peggio inutile, mentre lo rassicura facendolo sentire diverso e migliore.
Tocca invece a noi, cittadini e pubblica opinione, esercitare la fatica della coscienza e della consapevolezza, dunque della responsabilità, sporcandoci le mani. È stupefacente come un’opinione pubblica sedata non voglia oggi essere protagonista davanti a quel che accade: non con le monetine (che sono state poi raccolte da Bossi e Berlusconi), ma con l’indicazione di una disponibilità democratica al cambiamento, con la richiesta forte della vera riforma di cui il Paese ha bisogno, quella dell’onestà, della legalità, del rispetto non soltanto formale della Costituzione e della democrazia repubblicana. Partendo da Milano, dove Formigoni deve dimettersi per gli scandali altrui ma soprattutto per il proprio, incapace com’è di dire la verità ai cittadini sulle vacanze pagate da un faccendiere della sanità regionale.
Tocca poi al governo e alla parte più responsabile del Parlamento fare il resto. Non c’è tempo da perdere, e ci sono almeno tre urgenze: cambiando la vergogna del Porcellum, come si può pensare di riportare sulla scheda elettorale le preferenze, dopo lo spettacolo di Fiorito a Roma e di Zambetti a Milano? Cosa si aspetta a chiedere conto alle banche anche in Italia delle operazioni col denaro sporco, con l’evasione fiscale, col riciclaggio? Come si può infine pensare di varare una legge anticorruzione come chiedono milioni di cittadini (e trecentomila firme di “Repubblica”) scendendo a compromessi con una destra che punta a manipolare fattispecie di reati, pene e prescrizioni in vista di possibili utilizzi privati del suo Capo, con qualche resto per i Penati di turno?
La politica che vuole salvare se stessa ha l’occasione per farlo. Guai se venisse perduta. Oggi una riforma vera del sistema, in nome della legalità, non può trovare resistenze serie che abbiano il coraggio di manifestarsi alla luce del sole. Dunque si può: basta avere il coraggio di parlar chiaro al Paese, chiedendo il sostegno dell’Italia onesta.
La Repubblica 12.10.12