Sinora nessuno della vecchia guardia del Pd lo aveva detto, come fa ora Pier Luigi Castagnetti: «Al di là della radicalità e della impertinenza di Renzi, ammettiamolo: chi ha attraversato l’intera storia della Seconda Repubblica, porta su di sé una responsabilità oggettiva, quella di appartenere ad una generazione che ha contribuito ad una stagione politica conclusa con una sconfitta clamorosa. In vista della nuova fase dobbiamo avere il coraggio di passare la mano: servono forze nuove, che non portino il retaggio di sconfitte ancora recenti». Già assistente di don Giuseppe Dossetti alla diocesi di Bologna, da anni uno dei punti di riferimento dei cattolici-democratici, Castagnetti è stato l’ultimo segretario dei Ppi, espressione finale della lunga stagione democristiana.
Bersani, vincendo resistenze occulte ed esplicite di quasi tutta la nomenclatura ex-Ds ed ex-Ppi, ha imposto le Primarie: condivide?
«Alla fine delle Primarie ci saranno due vincitori. Vince Bersani perché prevarrà sul piano numerico, ma vincerà anche Renzi perché costringerà il Pd ad accettare la sfida di un rinnovamento molto forte. L’analisi di Bersani sta dentro la modernità: la condizione del Paese e la sempre maggiore lontananza dei cittadini dalla politica impongono una sfida, capace di ricreare una motivazione forte. In lui non c’è solo generosità, ma anche intelligenza: quando una metà del sistema politico va in crisi, l’altra metà restata in piedi, non può restare ferma: per questo Bersani candida il Pd a diventare il partito della trasformazione del. Paese e quindi della modernità».
Lei allude alla gioiosa macchina da guerra dì Occhetto?
«Che colossale errore fu quello di Occhetto: immaginare di ereditare il potere della Dc e del Psi, “utilizzando” Forza Italia senza al tempo stesso rinnovare a fondo il Pds».
Nella modernità di Bersani c’è anche una bella dose di rischio?
«Certo, ma è la stessa osservazione che gli fanno tanti e alla quale lui risponde: sì, ma è un rischio che voglio correre. D’altra parte la storia travolge chi cerca di scansare i rischi e molto spesso premia chi se li prende. Non vorrei che l’esempio apparisse sproporzionato, ma mi torna alla memoria ciò che disse Helmut Kohl a Mino Martinazzoli e al sottoscritto, sulla porta della Cancelleria nel 1993. A noi che gli avevamo detto, ci rivedremo dopo le vostre elezioni, lui ci rispose: non so se ci rivedremo. E ci spiegò che molte delle scelte da lui fatte, parità del marco, l’intero gettito fiscale investito sull’ex-Est, rendevano rischiosissime le elezioni ma che quel rischio valeva la pena correrlo per il futuro della Germania».
I dirigenti ex Ppi, Bindi e Fioroni in prima linea, hanno cercato di evitare le Primarie o, in subordinata, di far saltare i nervi a Renzi: le pare una linea politica?
«Io voto Bersani per tante ragioni e in Assemblea ne ho trovate tante di più. Quelli che vengono dalla mia storia sono quelli che stanno soffrendo di più per il ripiegamento in sé stesso del partito e per la nostalgia di un certo passato di sinistra. Ma con Bersani che accetta la sfida della modernità, noi che facciamo? Stiamo sugli spalti! Noi cattolici-democratici – portatori di una cultura di governo e di una intelligenza che ci faceva fiutare i tempi che cambiano – dovremmo essere i primi a dirgli: vai avanti! E invece rischiamo di uscire da questa vicenda come vecchi e bastonati e questo mi fa arrabbiare»
Le Primarie consacreranno i due interlocutori nel Pd: è questo «fuori i secondi» che mette paura alla nomenclatura ex Ppi?
«C’è questo timore, anche se viene negato. Ma proprio questo timore dovrebbe imporre una risposta diversa, perché star lì a gestire la paura del cambiamento, significa condannarsi ad un ruolo subalterno».
Lei pensa che una intera generazione debba passare la mano?
«Non tutti devono andare a casa, anche perché le responsabilità soggettive sono diverse, ma le responsabilità devono essere gestite soprattutto da una generazione nuova, da intelligenze capaci di leggere e capire meglio la stagione che viviamo e vivremo».
La Stampa 08.10.12