In attesa che si diffonda l’idea che tutte le articolazioni della sfera pubblica (sanità, strutture militari, magistrature, amministrazione, fisco, agenzie) vanno sottoposte a valutazione, si è deciso, chissà perché, di cominciare il processo dalla scuola e dall’università, che da qualche anno sono messe in subbuglio da una varietà di iniziative. L’obiettivo è quello di attribuire un rating a tutti gli aspetti di quel mondo: persone, risorse, candidati e commissari, ricerca, strutture… Tutto ciò nella mira di agganciare al rating ottenuto una varietà di decisioni, a partire dai finanziamenti. Gli attori di questo processo sono due, indicati da sigle (scelte con poco senso del marketing) in cui la “V” significa “valutazione”: l’Invalsi si occupa della scuola, l’Anvur dell’università e della ricerca. Altre sigle con “V” designano funzioni diverse: Vqr, Gev, Ava.
L’esigenza di valutare la qualità di scuola e ricerca era avvertita da tempo. Credo di essere stato tra i primi a segnalarne l’urgenza per il mondo universitario, come condizione per innalzarne il livello, poco esaltante allora come ora. Naturalmente, però, quando in Italia si parla di “valutazione”, siccome nessuno si fida più di nessuno, c’è sempre chi storce il naso. “Nessuno mi può giudicare” sembra essere l’opinione dominante, a cominciare dalla politica, dove quella massima è stata pronunciata più volte. Quindi, la prima difficoltà consiste nel far accettare la “cultura della valutazione”.
Dopo alcuni anni di insistenza, all’idea che valutare non è una forma di mobbing ci si è pressappoco assuefatti. Poi si sono creati gli organi: nel 1999 l’Invalsi, che ha tardato non poco a trovare la sua mission di organo valutativo della scuola. Per l’università si ebbe dapprima il Civr (sempre impronunciabile), istituito nel 1998 e defunto nel 2006 senza lasciare rimpianto; poi l’Anvur, istituito nel 2006 (governo Prodi) ma messo in funzione solo nel 2010 (ministro Gelmini).
Tutto bene, allora? L’Italia è finalmente, come il Regno Unito o la Germania, in marcia verso la valutazione? Se avete risposto “no!”, la risposta, ahimé, è quella giusta. Quanto all’Invalsi, che da qualche anno sottopone tutti i ragazzi italiani a prove nazionali omogenee, i media hanno segnalato gli svarioni di cui le prove pullulano e il fastidio con cui l’esperienza è stata accolta dai professionisti della scuola. Si attendono serie correzioni di rotta. Gli aspetti critici dell’Anvur sono più numerosi. Diretto da un comitato di sette membri con esagerato orientamento tecno-numerico e (a quanto si sa) strapagati, è gravato da una gamma di competenze che molti considerano spropositata. Gli spetta infatti di valutare i risultati della ricerca, definire criteri per l’accreditamento di atenei e corsi di studio, controllare l’efficienza delle università, valutare i progetti del governo sulla ricerca. Queste competenze si sono concretizzate di recente nell’organizzazione di un “esercizio di valutazione” della ricerca negli anni 2004-2010 (il Vqr di cui sopra), nell’attribuzione di un rating alle riviste scientifiche, nella creazione di criteri per l’ammissione non solo dei candidati ai concorsi ma anche (udite!) dei candidati a fare da commissario in quei concorsi. Queste applicazioni sarebbero apprezzabili, se non fosse che il processo, malgrado l’enorme lavoro che comporta, ha patito tante di quelle imprecisioni, errori, marce indietro e macchinosità che sembra, al momento, inceppato.
Solo qualche esempio. L’ammissibilità dei candidati ai concorsi e dei commissari alle relative giurie è regolata dal terrificante sistema delle “mediane” (unicum mondiale). In pratica gli uni e gli altri possono candidarsi solo se hanno pubblicato un numero minimo di lavori, i quali valgono di più se apparsi in riviste con alto rating.
Ora, nella definizione delle “mediane” si è prodotta una serie incresciosa di ritardi, pentimenti e errori; i punteggi attribuiti alle riviste sono stati accusati di compromessi corporativi e alla fine tra le riviste “scientifiche” si sono intrufolati anche periodici come Airone, Yacht Capitale la rivista della diocesi di Udine; la natura rozzamente quantitativa dei criteri di selezione privilegia chi pubblica molto (quale che sia la qualità) rispetto a chi produce cose di alto livello; le auto-dichiarazioni dei candidati sono spesso inattendibili e non omogenee… Non è poco, eppure non basta. La calendarizzazione dei concorsi è spericolata: devono esaurirsi entro la fine di gennaio prossimo ma, siccome i candidati possono presentare domanda fino al 20 novembre, le commissioni non avranno che due mesi per esaminare i titoli di non meno di 15/20.000 persone!
Insomma, a sani principi generali fa contrasto una realizzazione tortuosa e zoppicante, che sta producendo sconcerto tra le migliaia di candidati. La cultura della valutazione va acquisita non solo dai valutati ma anche dai valutatori, da cui si attendono norme semplici, accurate, confrontabili. Che fare intanto? Lasciar correre? O azzerare e ricominciare?
La Repubblica 03.10.12