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"Il sistema Sesto del proconsole rosso", di Piero Colaprico

Fatti e accuse vecchi di dodici anni fa», dice Filippo Penati. Ma i contributi nel 2009, sotto elezioni, tanto vecchi non sono. Nessuna novità rilevante », ribadisce, ma i pubblici ministeri mettono nero su bianco che “Fare metropoli”, l’associazione culturale legata all’ex presidente della Provincia di Milano, era il «mero schermo destinato ad occultare la diretta destinazione delle somme a Penati ». Non c’è solo l’inchiesta giudiziaria, con i suoi tempi e i suoi riscontri, ma anche una scansione di storie (sia certe, sia ambigue) a rendere difficile la posizione giudiziaria, e politica, ovviamente, di Penati: del fu proconsole dell’ex Pci nelle terre del centrodestra leghista e berlusconiano.
Era Penati un taciturno funzionario che «ci sapeva fare», era stato il sindaco di Sesto San Giovanni, paese di operai che nel dopoguerra e negli anni del boom votavano in massa Pci. Quando le fabbriche spengono le ciminiere e le città crescono cosmopolite, terziarie, senza tute blu, quelle aree industriali, vuote e rimesse a nuovo, diventano splendide per il business immobiliare. Una di queste, la ex Ercole Marelli, era nelle mani di un ricco imprenditore di Sesto, Giuseppe Pasini. Al momento di costruire, però, non tutto fila liscio. Sul più che benestante Pasini piovono alcune imposizioni. Una, associarsi, questo dice il suo verbale e non solo, alle Coop rosse. Due, sborsare una tangente e scegliere di pagare alcuni consulenti legati a Penati.
Se questo è il “sistema Penati” sull’edilizia a Sesto, l’ex Stalingrado d’Italia, bisogna aggiungere altre mazzette: quelle denunciate da Pietro Di Caterina, con la sua Caronte, società impegnata nel trasporto pubblico. Non appena Di Caterina comincia ad avere guai con creditori e giustizia, da amico e “bancomat” qual era, cambia strategia: vuole indietro i soldi che ha dato a Penati, quelli che Penati nella sua difesa smitizza ironicamente come «presunte tangenti con l’elastico ». Di Caterina comincia a far sapere in giro che «può parlare». E in anni che non sono di ricchezza facile accade una magia.
Di Caterina mette in vendita una sua proprietà immobiliare. La Codelfa, società del gruppo di Marcellino Gavio, dice che vuole comprarla e firma un contratto. Però non compra, ma resta obbligata a pagare una caparra di 2 milioni a Di Caterina. Si pagano 2 milioni di euro così facilmente? Bisogna aprire una parentesi. Questo schema dei contratti con clausole durissime emerge anche nell’inchiesta su Pierangelo Daccò, Antonio Simone e Roberto Formigoni. Esiste una società di Daccò, la Euroworldwide, che sottopone al San Raffaele «un ventaglio di proposte di vendita di alcuni aerei». Con una commissione del 6 per cento da calcolarsi sul prezzo dell’aereo che poi sarebbe stato acquistato. Euroworldwide consegna dunque una serie di stampe raccattate su Internet; l’ospedale firma il contratto e non compra l’aereo; Daccò intasca 2 milioni e spiccioli. Sembra insomma esistere, nella Lombardia patria dei commercialisti,
un metodo per lasciar correre da una società a un’altra denaro apparentemente legale.
In tutti questi contratti, resta però sempre sospesa una domanda: ma come mai uno paga tanti soldi quando può farne a meno? Infatti, com’è possibile che uno potente come Gavio, con società nazionali quotate, debba pagare sull’unghia 2 milioni all’ex camionista di periferia Di Caterina? Forse perché a pagare una parte dei costi della politica di Penati era il cosiddetto “sistema Sesto” e Di Caterina va tacitato? Per i pubblici ministeri, che da ieri chiedono il rinvio a giudizio, la risposta è sì. Anche perché era stato lo stesso Penati a rendersi protagonista di una sconcertante iniziativa politico-finanziaria che, letta in chiave giudiziaria, diventa ancor più negativa. Non più sindaco di Sesto, ma presidente della Provincia di Milano, fa acquistare dal “suo” ente pubblico le azioni dell’autostrada Milano-Serravalle di proprietà di Gavio. La Provincia paga un prezzo micidiale, Gavio guadagna ben 6 euro ad azione.
Esiste, quindi, un innegabile e continuo giro di danza, e di dareavere, tra Penati, alcuni imprenditori, politici e faccendieri. E c’è l’errore tipico di chi si sente braccato. Quando lo scandalo innescato da Di Caterina si profila, che cosa fa Penati? Chiede un incontro al ricco Pasini, al proprietario dell’ex area Marelli, a suo tempo “stritolato” dal sistema. Non sa Penati che la polizia giudiziaria tallona l’ultraottantenne, al quale dice: «Vero, Giuseppe, che io non ti ho mai chiesto soldi?». Penati si proclama innocente, e ne ha diritto. Resta anche in consiglio regionale, dove incassa la solidarietà di Roberto Formigoni. Ma fuori dai palazzi della politica lombarda cresce lo sconcerto, perché le sette pagine di rinvio a giudizio, con ventitré accusati, parlano di concussione delle aree ex Falck e Marelli, delle mancate bonifiche a Milano nell’area Santa Giulia-Montecity, parlano di architetti e faccendieri. E viene da pensare a quanto di meglio si sarebbe potuto costruire e fare, alle tante occasioni sprecate. E forse anche per questo “magone” metropolitano, per questo risentimento collettivo, se ci sarà il rinvio a giudizio Penati darà retta a chi (Pd, Udc) gli dice di dare un segnale: e mollare.

La Repubblica 02.10.12