PUÒ apparire strano che il Ministro dell’Economia reputi necessario sancire ora una prassi di attenzione e di vigilanza che avrebbe dovuto essere ovvia da sempre, affermando che se ci sono notizie penalmente rilevanti «su amministratori o altri componenti importanti delle società di cui il Tesoro è azionista, deve essere fatta la massima chiarezza in modo trasparente sui fatti e sulle implicazioni sul funzionamento delle società».
Lo stesso potrebbe valere per le decisioni prese dalla Conferenza delle Regioni e presentate al governo; riduzioni del numero dei consiglieri regionali, delle spese dei gruppi consigliari, pubblicità dei bilanci, aumenti dei controlli della Corte dei conti. Tutte iniziative che ora, nel convulso susseguirsi degli scandali, possono sembrare dettate più dal panico che non invece – come sicuramente sono – da ottime intenzioni. Il che dimostra che le riforme non solo devono andare nella direzione corretta, ma devono anche essere tempestive. La politica ha molto a che fare con il senso dell’opportunità, del momento giusto, dei segni colti per tempo.
Segni che invece le élites non hanno ben messo a fuoco, se non in ritardo: alcuni politici sono presi con le mani nel sacco, smascherati nelle loro pratiche di sperpero del pubblico denaro divenute ormai costume diffuso, e introiettate come normalità, come privilegi di una casta irresponsabile; altri mettono il turbo ad iniziative lodevoli ma che fino a ieri procedevano con tranquillità; mentre la magistratura prende a indagare in tutta fretta, dando rapido inizio a controlli certamente benvenuti e da tempo attesi, o accelera con energia inchieste aperte da tempo.
La verità è che l’Italia, oggi, si sta forse svegliando, e che il risveglio ha colto molti di sorpresa. La dura crisi economica nella quale il Paese si dibatte, i severi tagli alla spesa pubblica – che hanno colpito la società, le famiglie, i ceti più deboli – stanno rendendo i cittadini più attenti alle spese del sistema politico, meno rassegnati a sopportare come un destino, come una inevitabile maledizione, l’essere governati da ceti politici spesso inadeguati. L’Italia costretta a guardarsi nello specchio della recessione, obbligata a una dura dieta dimagrante, a una nuova austerità, non si limita più a sogghignare della politica: chiede i rendiconti, reclama giustizia, esige rigore anche e proprio dai politici che glielo impongono. I quali, appunto, reagiscono come se fossero presi in contropiede, anche quando non sono sorpresi in flagrante. E mancano di lucidità. Basta vedere la reazione assolutamente controproducente della destra, ferma alla posizione che fu già di Craxi, e che lo rovinò – “siamo tutti ugualmente colpevoli” –, e che enumera gli inquisiti di sinistra come se questa fosse una risposta adeguata a chi l’accusa del malaffare del Lazio o della Lombardia; una destra goffamente collocata di traverso rispetto al disegno di legge anticorruzione, necessario sotto il profilo economico e ancora più sotto il profilo etico, che pure è bloccata dalla resistenza di un partito che pare non curarsi di essere finito nell’angolo, a combattere la battaglia sbagliata nel tempo sbagliato. La battaglia contro le tasse, contro l’euro, contro la magistratura, che negli anni passati tante volte fu vinta da Berlusconi; e che invece oggi sta prendendo un’altra piega.
Ciò che sta facendo pendere i piatti della bilancia nella direzione opposta è appunto il ddl anticorruzione, divenuto il punto di coagulo di un nuovo protagonismo dei cittadini, i quali con le loro firme – ormai più di centomila – chiedono che sia approvato al più presto. E si sottraggono così tanto all’inerzia e alla rassegnazione davanti al malcostume politico, quanto alla deriva qualunqui-stica, alla protesta generalizzata, alle tentazioni anti-sistema, consegnando al governo – all’istanza centrale, uscita dalla pesante cappa di compromissione del recente passato – anche questo nuovo compito: riportare alla decenza e alla legge i territori degradati, le autonomie dissipate, le regioni che aprono voragini nei loro conti e nello spirito pubblico degli italiani (non sarà facile, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione; e molto difficile per le regioni a statuto speciale).
Un compito da svolgere con risolutezza, con pochi proclami e con molte iniziative concrete. Un compito, tuttavia che non deve essere interpretato come la lotta del governo e dei cittadini contro i partiti e contro le regioni – sarebbe troppo facile, e anche ingiusto: non tutte le regioni sono uguali, non tutte possono esibire le stesse realizzazioni, non tutte sono segnate dal malaffare – ma come un cammino che un intero Paese e un intero sistema politico, per fuggire il rischio di una crisi sistemica, devono intraprendere verso nuovi costumi pubblici, verso un nuovo incivilimento. Che potrà consistere solo nel risincronizzare i tempi del Paese e i tempi della politica, nel nuovo incontro fra il bisogno di serietà degli italiani con una politica liberata da personaggi inqualificabili e pratiche scandalose, e riportata alla sua dimensione di potere trasparente e di severa responsabilità.
da La Repubblica