Sono bastate poche parole, e una fase politica si è chiusa. La stagione dei tecnici – per come l’abbiamo conosciuta in questi dieci mesi – è destinata a cambiare, probabilmente a scolorire la sua “tecnicità”. Per assumere la tinta della politica. Il discorso pronunciato a New York da Mario Monti muterà il segno della prossima campagna elettorale e contestualmente modificherà il volto del governo in carica. L’esecutivo dovrà fare i conti con una situazione diversa. Con le elezioni, certo. Ma anche con un rapporto nuovo che inevitabilmente si instaurerà con l’opinione pubblica. Fortunatamente, infatti, il perno fondamentale di una democrazia resta il voto dei cittadini. L’Italia tra pochi mesi sarà chiamata alle urne. E nessuno — nemmeno la comunità internazionale — può dolersene. Al termine di una legislatura, si vota. Il nostro Paese non è regolato da uno Statuto speciale che permette di non interpellare gli elettori in base alle richieste più o meno strampalate degli investitori stranieri o in virtù di un andamento più o meno positivo dello spread tra i btp e i bund tedeschi. Gli italiani devono scegliere i propri rappresentanti e in particolare hanno il compito di imprimere il loro segno al prossimo governo. Nella speranza
che dal voto esca una maggioranza politica chiara e netta. Dopo i venti anni di berlusconismo che hanno modificato geneticamente la cultura di un Paese spingendolo sull’orlo del precipizio, non possiamo più permetterci il lusso di assistere ad un’altra fase di incompiutezza o irrisolutezza.
Le larghe intese, la “strana” maggioranza Pdl-Pd-Udc non possono che rappresentare una contingenza. Un soluzione transitoria inevitabile per affrontare l’emergenza e salvare un Paese destinato solo un anno fa a precipitare nel baratro del fallimento tecnico o nella perversa spirale che ha già messo in ginocchio la Grecia. Ma la “Grande coalizione” — come è accaduto anche in Germania — deve essere a tempo. E il suo tempo scade in primavera.
Altro discorso è quel che farà la maggioranza politica che gli italiani indicheranno. L’agenda Monti — quell’insieme di impegni e mission sottoscritti dal governo tecnico e che ci hanno permesso di riconquistare credibilità — non può però rappresentare uno scarto da gettare nella spazzatura dello scontro elettorale. Chiunque vincerà, non potrà comunque fare a meno di quella bussola. La potrà completare, integrare, magari correggere. Ma non cancellarla. E non perché Bruxelles o la Casa Bianca ce lo chiede, ma semplicemente perché costituisce — una volta scongiurato il default — la base indispensabile per tirare fuori l’Italia dalle secche di una crisi economica che durerà ancora. Perché lo chiede il tessuto produttivo e più vivo di questa comunità. Chi prevarrà nel voto, allora, potrà interpretare quell’agenda nel segno di una maggiore equità sociale o — speriamo di no — in quello di un crescente e irrazionale antieuropeismo. Potrà coniugarla nel rispetto delle emergenze che assillano i ceti più deboli della nostra collettività o al contrario inseguendo le ricette di un anacronistico neoliberismo. In ogni caso non si tratterà di una mortificazione del ruolo dei partiti, di tutti i partiti. Senza i quali una democrazia non può certo definirsi tale. Si tratterà bensì di prendere atto del contesto nel quale ci muoviamo. Nella consapevolezza che gli assetti socio-economici dell’intero pianeta stanno subendo le trasformazioni più profonde degli ultimi 60 anni. E proprio per questo, chiunque otterrà il consenso necessario per formare il nuovo governo, dovrà porsi in coscienza un interrogativo: si può fare a meno di un negoziatore, di un garante come Mario Monti? Il premier da novembre scorso ad oggi ha in primo luogo dimostrato di sapere trattare in Europa senza complessi di inferiorità e soprattutto senza la chiassosa imperizia del suo predecessore. Si è confrontato con la arcigna Cancelliera Merkel mettendo in campo una credibilità che l’Italia aveva sperperato nel giro di un decennio. Ha ricomposto un rapporto con gli Stati Uniti drammaticamente incrinato dall’esecutivo di centrodestra e dalle battute sull’abbronzatura del presidente americano. Ecco, l’Italia forse non può rinunciare a queste capacità. Almeno in questa fase. Nella consapevolezza che il ruolo e le caratteristiche del Professore sembrano più adatte alle funzioni esecutive che non a quelle della presidenza della Repubblica. A gestire la richiesta o meno di accedere al Fondo salva-Stati. E se la maggioranza politica che risulterà vittoriosa nelle cabine elettorali ne prenderà atto, allora dimostrerà la sua forza. Per i partiti sarebbe un segno di potenza e non di debolezza. Riportare l’agenda Monti nell’alveo della politica significa connotare l’azione di governo, darle un colore e non abbandonarla alla neutrale esegesi dei “tecnici”. Significa finalmente ricondurre le forze elette in Parlamento al centro delle decisioni. Come accade in tutte le democrazie occidentali.
La Repubblica 28.09.12