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"Se l'ora di religione rimane una trincea", di Mariapia Veladiano

Come si fa a non parlar di Dio a scuola? Far finta che non esista un credere che ha scosso la storia, disegnato le nazioni, spostato i confini, costruito cattedrali e pievi, riempito musei di opere d’arte. E poi ha dato speranza e suscitato l’azione di persone, popoli, per generazioni, ovunque, da sempre. Anche adesso. E poi, certo che è capitato, questo credere si è anche rovesciato in conflitti, ordalie atroci, fanatismi devastanti. E bisogna saperlo perché non capiti più, così si dice sempre, tutti d’accordo. Fin qui d’accordo. Poi comincia la guerra. Su come parlare di questa immensità che si declina in infiniti personalissimi modi di far propria una speranza così assoluta da non potersi quasi dire e che pure si deve dire. La via italiana al parlar di Dio a scuola è limpidamente inesemplare. L’attuale status dell’Insegnamento della religione cattolica (Irc) è formalmente ineccepibile.Ha da anni un suo corretto profilo culturale, dei programmi non confessionali che guardano al cristianesimo come fenomeno religioso fondante per la nostra storia e società, ha suoi obiettivi di apprendimento e sta definendo le specifiche competenze in uscita riferite ai diversi ordini di scuola.
Però ha alcuni peccati d’origine che la rendono una disciplina sempre in trincea: nasce da un Concordato (quella del 1984 è stata solo una Revisione del Concordato) internazionale, è disciplina a pieno titolo, ma marginalizzata a livello reale in quanto non entra nell’esame di Stato ed è soggetta a scelta, e marginalizzata anche a livello simbolico, perché la valutazione è fuori dalla pagella.
Poi ci sono i docenti: ora di ruolo per concorso, ma sottoposti all’idoneità dell’ordinario diocesano e però gestiti dallo Stato, privilegiati
per alcuni, ma anche crocifissi da una condizione irrimediabilmente anomala che spesso li costringe a programmi molto dipendenti dai desideri degli studenti. A volte eroi a volte fantasisti della didattica.
Ora, a dire che va bene così, magari perché ancora i numeri “tengono” e gli studenti che si avvalgono sono ancora la maggioranza, ci vuol proprio coraggio. Non va bene così anche solo perché decenni di IRC non ci stanno salvando da un analfabetismo religioso impressionante. Chi insegna lettere conosce la disperazione di dover spiegare tutto, ma proprio tutto, ogni volta che in letteratura si ha bisogno di riferirsi alla cultura religiosa: che sia la cacciata dal paradiso terrestre per il primo capitolo del Candido di Voltaire, o la Pentecoste per gli Inni sacri di Manzoni. Gli studenti non sanno enunciare un dogma quando si parla di principio d’autorità nell’Illuminismo, non sanno dire cosa sia un salmo quando si incontrano i versi struggenti di Quasimodo “
alle fronde dei salici per voto,/ anche le nostre cetre erano appese,/ oscillavano lievi al triste vento”.
E spesso neppure sanno cosa sia un voto diverso da quello di scuola.
Oggi la scuola è davvero l’ultimo splendido laboratorio della nostra convivenza e l’esperienza religiosa, che per tanti, per la maggior parte di noi, è sì storia, cultura, passato ma anche fondamento e insieme spiraglio di un futuro possibile, deve trovare un posto preservato dalla strumentalizzazione politica, difeso attraverso la sobrietà delle parole e dei toni. Chi crede sa che la fede non ha bisogno dell’IRC, ma del nostro dar ragione della speranza che viviamo, lungo tutto il laico comune costruire insieme i giorni che ci sono dati.
Ai ragazzi a scuola si deve dare la consapevolezza che l’allargarsi dell’umano alla dimensione dello spirito non è un abbaglio, ma una possibilità che moltitudini prima di loro e intorno a loro hanno conosciuto e conoscono. E nella pace possono coltivare.
Un parlar di Dio a scuola che venga dalla vittoria di un malsano accanito combattersi è sempre una sconfitta.

La Repubblica 27.09.12

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“Scuola, tutti i nomi di Dio”, di MAria Novella De Luca

Bisogna venire qui, in questa ex “scuola ghetto” per stranieri, «da cui le famiglie italiane fuggivano, mentre adesso c’è la fila», ricorda Miriam Iacomini, coordinatrice didattica, per capire come e quanto la polemica sull’ora di religione, la crociata di critiche contro il ministro Profumo che ne ha proposto una (timida) modifica, siano cose e parole lontane dalla vita reale.
Perché l’Italia di Hu, di Massimo, di Pilar, cinesi, filippini, sudamericani,
nordafricani, bangladesi, ma anche romeni, ucraini, albanesi, che giocano e corrono nel cortile della loro scuola, è già “multi” – culture, fedi, colori – e il cattolicesimo, visto dalle volte scrostate di questo antico istituto, è soltanto una tra le tante religioni. Racconta Yusra, 11 anni, accanto alla madre Safia, somala: «Sono musulmana, frequento la moschea, ma qui a scuola fin dalle elementari ho avuto amici di tutte le nazionalità e di tutte le religioni. Ho sempre fatto l’ora di “alternativa”, ma ho partecipato ai laboratori: ognuno raccontava le proprie usanze e anche il proprio modo di pregare». E Safia, con il capo coperto, quietamente precisa: «Nel Corano c’è ogni cosa, anche un po’ della Bibbia, dividersi non serve… ».
Davanti al cancello donne velate e mamme in sari, genitori italiani e la folta, foltissima e sempre più prospera comunità asiatica dell’Esquilino. «Noi siamo buddisti scandisce sicura la bambina cinese, italiano perfetto e lieve accento romano – ma la mia migliore amica ha fatto la prima comunione, e alla sua festa sono andata anch’io». Integrazione senza barriere. Poi i ragazzini crescono, e può accadere che tutto cambi. Ma per ora è così. Semplicemente. «Questa scuola negli ultimi dieci anni ha subito una metamorfosi positiva», dice con orgoglio Rosaria D’Amico, maestra con la passione ancora intatta per il suo lavoro. «Le famiglie italiane del quartiere avevano paura di portare i loro figli in un istituto con una percentuale di immigrati così alta. Poi hanno iniziato a frequentarci, hanno capito la nostra didattica aperta ad ogni tipo di diversità, hanno visto le attività, dallo sport alla ludoteca, e le iscrizioni sono cresciute di anno in anno. Italiani e non. E forse sarebbe ora di smetterla di parlare di “stranieri”, visto che il 90% degli immigrati che frequentano la nostra scuola è in realtà nato in Italia ».
I piccoli cinesi ad esempio. Che alle 16,30, quando tutti gli altri vanno
a giocare, frequentano la loro seconda scuola, in cinese, appunto. «E sono fortissimi, hanno un allenamento formidabile, come quelli che arrivano dal Bangladesh, che parlano tre lingue», aggiunge Rosaria D’Amico. Mescolarsi fa bene. Apre la mente e i cuori. Come pregare, per chi ci crede. Cristo, Allah, Budda: i grandi poster sulle pareti disegnati dai ragazzi ci ricordano che le fedi sono tante, Dio ha più volti e più nomi. «Ognuno nel cuore sa come invocarlo, soprattutto quando sei un bambino», dice Fatiah, musulmana, che però non ha esonerato i suoi figli dall’ora di religione. «Per loro è come una favola, va bene così».
Educazione alla convivenza. Alla “Di Donato” da alcuni anni, l’associazione “Uva”, che vuol dire “Universo L’Altro”, tiene laboratori di storia delle religioni, finanziati attraverso un bando della Tavola Valdese, con i fondi dell’8 per mille. Spiega la presidente Giulia Nardini: «È da questa eterogeneità che nasce la curiosità dei bambini. Ai nostri corsi partecipano tutti, anche chi è esonerato dall’ora di religione cattolica. Noi facciamo un racconto delle varie fedi attraverso i simboli, le feste e le mappe dei luoghi dove queste storie sono nate. E la narrazione li cattura, conquista sia chi in famiglia prega, chi no. La particolarità è che spesso i bambini di questa scuola già sanno a quale religione appartengono i loro compagni. Sono abituati alla diversità». E gli insegnanti di religione? «A volte collaborano, a volte è come se volessero difendere il loro territorio dalla contaminazione».
Invece questa scuola multi-tutto, aperta dal primo mattino alla sera tardi, grazie ad un efficientissimo comitato di genitori, sede di un Ctp, cioè un centro di educazione per adulti, ha fatto della “contaminazione” la propria cifra. Vincente, sembra. Francesca Longo ha due figlie. «Entrambe hanno sempre frequentato l’ora di religione. Per cultura, per curiosità.
Credo sia giusto. Purché, naturalmente, non diventi catechismo ». Aldo è il giovane padre di Paolo, 6 anni, energia incontenibile: «Siamo atei, Paolo non è battezzato e non fa religione. Il ministro Profumo ha ragione: in un mondo globalizzato non si può insegnare ai bambini che esiste soltanto il cattolicesimo. E chi lo critica dovrebbe vedere questa realtà: il miglior amico di mio figlio è di fede islamica, il suo compagno di banco è induista. Il mio sospetto è che la Cei voglia utilizzare l’ora di religione per catechizzare e riportare alla Chiesa i nostri bambini…».
Chissà. Eppure ai più giovani il contatto con il “sacro” piace. Miriam
Iacopini, maestra e coordinatrice didattica: «Poco tempo fa abbiamo fatto un lungo lavoro sulle tre religioni monoteiste, portando i bambini a visitare anche la moschea e la sinagoga. E alle famiglie che avevano esonerati i figli dall’ora di religione abbiamo chiesto un esonero “al contrario”. Un’esperienza entusiasmante. Queste polemiche invece sono inutili. Avete visto la nostra scuola? Cadono i cornicioni, la palestra è inagibile, le finestre sono rotte. Abbiano bisogno di fondi non di dibattiti già vecchi per i bambini di domani…».

La Repubblica 27.09.12