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"L'antipolitica dei berluscones", di Claudio Sardo

La vergogna dei soldi pubblici spesi alla regione Lazio per ostriche e vini, per regali di lusso e maxi-bollette private, per dubbi collaboratori e viaggi poco politici alimenta la sfiducia e il disprezzo dei cittadini verso i partiti e le istituzioni. Per tanti è la dimostrazione del teorema della politica sporca, dei partiti tutti uguali, della democrazia ormai declinante e sostanzialmente irriformabile. Si tratta di uno scandalo nato in casa Pdl, e proprio per questo gli opinionisti di destra sono i più agguerriti nel sostenere che tutti sono responsabili alla stessa maniera.

Renata Polverini, presidente della giunta regionale, ha avuto la possibilità – appena rese pubbliche le circostanze pecorecce e i dati sconvolgenti della gestione Fiorito-Batman dei fondi assegnati al gruppo Pdl – di porre fine a questo spettacolo miserabile e compiere il solo atto che potesse segnalare, pur nel disonore, un desiderio autentico di riparazione: le dimissioni, lo scioglimento del consiglio e l’avvio delle procedure per nuove elezioni. Ma ciò non è avvenuto.

Le dimissioni sono diventate invece oggetto di negoziati oscuri, di minacce e ricatti, fino a quando Berlusconi non ha deciso di resistere ad oltranza: il Pdl nel bunker con l’obiettivo di trascinare in quel bunker anche gli avversari. Muoia Sansone con tutti i filistei. Del resto, è la linea nazionale del centrodestra, che sa di non potersi candidare dopo Monti alla guida del Paese e dunque tenta di impedire in ogni modo che possano prevalere il Pd e il centrosinistra.

Eppure questa vicenda di rara bruttezza non è la sconfitta della politica, come molti sentenziano. È piuttosto il fallimento di quell’antipolitica, che negli ultimi due decenni ha avuto in Italia un leader indiscusso: Silvio Berlusconi. È stato lui, al tempo di Tangentopoli, l’interprete principale della dottrina nuovista, quella che ha bollato come vecchia e inservibile l’intera nostra storia, quella che pretendeva di sostituire i leader carismatici ai partiti, la società civile intesa come somma di individui singoli al civismo dei corpi intermedi, l’elezione diretta del capo alle inservibili mediazioni, fonte inesorabile di corruzione. I protagonisti del grottesco festino in abiti greci sono esattamente quelli che vent’anni fa gridavano contro i partiti, contro la sinistra responsabile del degrado non meno di ogni altro, contro il vecchio che doveva morire per favorire finalmente l’avvento di uomini nuovi, appunto politici senza mediazioni. Sono stati il motore della vittoria della destra berlusconiana e leghista. Ma non hanno portato più moralità, più trasparenza, più potere ai cittadini, come avevano promesso.

La politica è malata. Come vent’anni fa. Forse oggi ancor di più perché la delusione della seconda Repubblica aggrava la sfiducia. Ma non è vero che tutti sono uguali. Non è vero che i partiti sono una categoria unitaria. Non è vero non c’è più la destra e la sinistra. Non è vero che la tecnocrazia può sostituire la democrazia e lo scontro tra gli interessi. Non è vero che l’immoralità è conseguenza inevitabile della mediazione politica e sociale. L’innovazione, la pulizia, il rinnovamento degli uomini sono possibili. Combattendo, ovviamente. La politica è una cosa bella: è il solo strumento in mano a chi è più debole per rendere la società meno diseguale. La politica minaccia proprio chi vuole conservare i privilegi: per questo chi ruba da una postazione pubblica è doppiamente colpevole.

L’Italia può riscattarsi. Ma è necessario imboccare una strada diversa rispetto a vent’anni fa: la strada della ricostruzione dei partiti e delle istituzioni. Partiti rinnovati, partiti nuovi. La personalizzazione estrema, unita a pratiche populiste, ha portato il Paese sul baratro e ha pure fatto aumentare la corruzione. Abbiamo bisogno di partiti democratici, trasparenti, scalabili. Perché è lì che avviene il primo controllo sull’uso pubblico dei fondi pubblici, prima di quello necessario della Corte dei conti. È questo un monito per quanti, anche a sinistra, sono oggi tentati di rilanciare con pochi emendamenti le parole d’ordine che hanno consentito la vittoria a Berlusconi e Bossi. Guai a illudersi che si possa ricostruire davvero un tessuto di solidarietà e di democrazia attraverso scorciatoie demagogiche: i vendicatori solitari portano autoritarismo, corruzione e minore trasparenza.

Anche sulle Regioni come enti di spesa oggi si scarica la protesta dei cittadini, che soffrono i morsi della crisi e non trovano politiche favorevoli alla crescita. La destra ha cominciato a dire che le colpe sono del federalismo, del trasferimento dei poteri agli enti locali, dell’aumento dei centri di spesa. Comprese le colpe dei Batman de’ noantri, che pagavano a pie’ di lista il ristorante e il gioielliere con i soldi pubblici. È evidente che troppe cose non vanno. Nel Lazio i fondi per i gruppi consiliari erano eccessivi e il sistema di distribuzione inaccettabile. Ma anche le Regioni non sono tutte uguali. Hanno prestazioni, efficienza, trasparenza assai diversi l’una dall’altra. C’è una responsabilità, c’è una differenza, non tutti i partiti reagiscono allo stesso modo. Il meglio va raccontato. E il peggio va mostrato senza veli, affinché i cittadini possano giudicare e scegliere. E poi, non erano stati proprio Bossi e Berlusconi a scommettere sul federalismo? Non avevano detto che così il Paese avrebbe risparmiato?

L’Italia ha bisogno di un grande cambiamento politico. Ha bisogno di un confronto aperto tra alternative. La soluzione tecnocratica, nel dopo elezioni, rischia di avere effetti tragici. Il cambiamento dovrà riguardare l’intera amministrazione pubblica, le Regioni e gli enti locali vanno ridotti di numero e resi più efficienti. Ma non si butti il bambino con l’acqua sporca. Il federalismo senza miti leghisti può essere un fattore di risparmio e di innovazione del welfare, può contribuire a disegnare una nuova idea di pubblico e aiutare così lo sviluppo dei territori. Si rifletta piuttosto sui governi monocratici e sul presidenzialismo della seconda Repubblica: il potere solitario del governatore, combinato con i poteri personali dei consiglieri eletti con le preferenze, ha creato paralisi istituzionali e allargato spesso le cancrene. I personalismi hanno distrutto i partiti e indebolito le capacità di resistenza al malaffare. Il cambiamento è una ricostruzione democratica. È una lotta di libertà, anche se oggi appare controcorrente.

L’Unità 23.09.12

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