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Giornalisti: Ghizzoni, carcere per Sallusti incompatibile con stato di diritto

In Commissione Cultura provvedimenti per revisione norme. “L’ipotesi di carcerazione per reati di opinione non è compatibile con uno Stato di diritto. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della camera dei Deputati, commentando la notizia, annunciata dal quotidiano “Il Giornale”, della condanna a 14 mesi del direttore Alessandro Sallusti. – Da presidente della commissione Cultura farò quanto è in mio potere per avviare procedimenti che impegnino il Parlamento ed il Governo ad una revisione delle norme penali vigenti per i reati commessi nell’esercizio della professione giornalistica, a partire dal reato d’opinione.”

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“QUANDO UN DIRETTORE RISCHIA LA GALERA”, di Giovanni Valentini

Qui però non si tratta soltanto di una divergenza d’opinioni, di un dissenso politico o culturale. Né tantomeno di una malintesa solidarietà professionale, da manifestare a un collega come un obbligo di categoria o una difesa d’ufficio. La vicenda tocca un nervo scoperto del rapporto fra giustizia e informazione, coinvolgendo tutti noi cittadini di questa Repubblica.
Il rischio che mercoledì prossimo il direttore del «Giornale» possa finire in carcere per un articolo scritto da un altro giornalista nel 2007, quando lo stesso Sallusti era reggente di «Libero» e ne aveva quindi la cosiddetta responsabilità oggettiva, rappresenta un’aberrazione giuridica che non può appartenere alla civiltà del Diritto. Non è solo malata una giustizia in grado di produrre una tale mostruosità. È una giustizia che contraddice e nega se stessa, la propria legittimazione democratica, la propria autorevolezza e credibilità.
Rispetto al principio fondamentale per cui la responsabilità penale è necessariamente personale, appare già di per sé mostruoso l’istituto della responsabilità oggettiva che incombe sul direttore giornale, per tutto ciò che viene scritto e pubblicato, anche indipendentemente dalla sua impossibilità fisica o materiale di controllarne il contenuto. È una presunzione giuridica ormai inaccettabile, un automatismo intimidatorio e vessatorio, che configura una forma indiretta di censura preventiva. E rappresenta perciò una grave limitazione – questa sì, davvero oggettiva – alla libertà di stampa.
Anche il diritto d’informazione, inteso come diritto dei cittadini a essere informati più che dei giornalisti a informare, dev’essere sottoposto naturalmente a regole e limiti. A cominciare dal rispetto dell’onore e della reputazione altrui. E quando la pubblicazione di una notizia o di un articolo supera indebitamente questo confine, il Codice contempla il reato di diffamazione, con la possibilità di comminare pene pecuniarie o anche di stabilire un risarcimento sul piano civile.
Ma in un Paese democratico non è ammissibile che nel caso di un reato d’opinione, cioè di un reato che si realizza attraverso la manifestazione di una tesi o di un giudizio, si arrivi a sanzionare tali comportamenti addirittura con il carcere. C’è un’evidente sproporzione tra l’offesa e la difesa, tra il danno prodotto da un’azione diffamatoria e la privazione ancorché temporanea della libertà personale. Oltre a ripristinare l’onore e la reputazione altrui, la «giustizia giusta» è tenuta a punire il responsabile con rigore ed equità, senza spirito di vendetta o di persecuzione.
Sono dunque norme liberticide quelle che ora minacciano di mandare in cella Sallusti, per un reato che lui non ha commesso o peggio ancora per un disguido procedurale in cui sarebbero incorsi i suoi difensori. Già in un’altra occasione è dovuto intervenire il Capo dello Stato con un provvedimento di grazia, per evitare il carcere al collega Lino Jannuzzi. Ma nel frattempo il Parlamento non è stato ancora capace di riformare questa assurda disciplina che minaccia l’esercizio della libertà di stampa. Tocca perciò al ministro della Giustizia, Paola Severino, penalista di grande esperienza e prestigio, trovare adesso una soluzione corretta e ragionevole, per impedire che «in nome del popolo italiano» un cittadino giornalista venga condannato alla reclusione.
Il «caso Sallusti» ripropone però all’attenzione un altro aspetto delicato del rapporto fra giustizia e informazione, troppo a lungo trascurato, ma non meno grave e preoccupante. Quello del trattamento privilegiato di cui spesso godono i magistrati da parte dei loro stessi colleghi, quando ritengono di difendersi in tribunale dalle critiche o dalle accuse dei giornali. Processi con «corsie preferenziali», sentenze-lampo ed esemplari, risarcimenti abnormi. Anche questa è una forma di intimidazione, tanto più inquietante perché subdola e occulta.
Non risulta, invece, che i magistrati siano mai condannati a risarcire direttamente qualcuno, neppure quando sbagliano nello svolgimento delle loro funzioni o vengono riconosciuti colpevoli addirittura di «dolo soggettivo». Al posto loro, semmai, paga il ministero di Grazia e Giustizia. Cioè noi stessi, cittadini e contribuenti, che dovremmo essere il «popolo sovrano ».
Nel nostro sciagurato Paese, collocato non a caso agli ultimi posti nelle graduatorie mondiali della libertà d’informazione, sono già troppi i vincoli e i condizionamenti che gravano sulla stampa. Non c’è bisogno di mandare in galera i giornalisti per difendere l’onore e la reputazione di nessuno. E neppure di riservare trattamenti di favore ai magistrati, come se fossero una casta di intoccabili, per tutelare le prerogative di una categoria composta da tanti rispettabili servitori dello Stato

La Repubblica 22.09.12