C’è una lettura politica immediata: lo scandalo alla Regione Lazio non sta devastando solo la destra romana, ma rischia di essere il detonatore di quella spaccatura nel Pdl nazionale che, ormai da qualche mese, è sempre più evidente. Tra il gruppo degli ex An e quello degli ex Forza Italia, il collante di Berlusconi non basta più, perché non assicura più l’unica condizione che lo sigillava, la probabilità della vittoria. Ma le convulsioni della giunta Polverini, in una agonia che trascina la sua fine oltre la decenza, dopo i casi Lusi, Penati, Lombardo, Formigoni suggeriscono una riflessione più profonda e qualche domanda inquietante.
Gli interrogativi sono almeno due. Che razza di classe politica e amministrativa è stata allevata in Italia negli ultimi anni? Con quali metodi di formazione è stata coltivata e con quali criteri si è selezionata la carriera dirigente? E, poi, lo spettacolo di sfascio democratico, civile e morale, con punte di squallida farsa, come quelle testimoniate dalle foto durante le feste nel costume di una pseudo Roma antica, non segnala anche la fine di un’illusione?
Quella delle virtù del potere diffuso sul territorio, meno esposto alle tentazioni perché più prossimo e, quindi, più controllabile da parte del cittadino. Una illusione e pure una speranza, alla base di quei consensi popolari che, negli ultimi tempi, hanno fatto crescere l’idea federalista in Italia. Ma anche l’alibi dietro il quale un famelico assalto alla diligenza è dilagato tra pletorici Consigli regionali, provinciali, comunali, di quartiere, tra migliaia di poltrone dove all’ideale democratico della partecipazione si è sostituito il costume criminogeno della spartizione.
La risposta alla prima domanda è facile, basta guardare alla realtà dei partiti italiani, così come si è modificata negli ultimi decenni. Finita la forte motivazione ideologica che divideva gli animi, ma che accendeva la passione di un impegno che pensava di poter cambiare se non il mondo, almeno l’Italia, l’ingresso in un partito non è più una scelta di vita, ma l’opportunità di acchiappare un tenore di vita. La conferma dell’obiettivo viene data, poi, dalla selezione delle carriere, perché chi avesse altre intenzioni viene subito emarginato e, infine, costretto all’abbandono o a ricoprire ruoli marginali. Criteri di promozione che sono necessitati, peraltro, dalla mutata natura della lotta politica: dallo scontro tra correnti ideologiche alle rivalità tipiche dei «partiti personali». Un modello di organizzazione che, dall’alto, si è ormai propagato nelle realtà periferiche, anche le più piccole. Con la ovvia conseguenza che la fedeltà è più utile della capacità, l’obbedienza fa premio sull’indipendenza.
Come in tutte le società, anche in quella politica, il peggioramento della classe dirigente diviene, a un certo punto, talmente insopportabile e manifesto che il sistema non regge più e l’attuale situazione sembra potersi configurare sul crinale di questa drammatica svolta. Come fu all’epoca di «Mani pulite», quando il meccanismo della diffusa pratica di «dazione ambientale» si spezzò clamorosamente e tutto in una volta, così, adesso, la corruzione e il malcostume della classe politica locale pare annunciare una vera e propria crisi della democrazia italiana.
La necessità di un profondo rinnovamento della classe politica, nazionale e locale, non può che partire là dove il male si è annidato e ha prosperato: la vita dei partiti. Se la democrazia non si riesce a concepire senza i partiti, questi partiti non sono concepibili in una democrazia. Sono necessari statuti rigorosi, controlli di autorità esterne, regole di finanziamento trasparenti, ma, e soprattutto, una modifica profonda e radicale dei criteri di formazione e di selezione delle carriere.
Lo spettacolo che, dalla Sicilia alla Lombardia, passando per la capitale, sta squadernandosi sotto gli occhi degli italiani, però, dovrebbe limitare anche gli entusiasmi, come si è detto, per certi dogmatismi federalistici troppo sbandierati, in buona o cattiva fede. La moltiplicazione dei poteri e la loro diffusione sul territorio, di per sé, non è una garanzia democratica. Può diventare anche la moltiplicazione e la diffusione di ruberie, sprechi, alimento di corruzioni spicciole e grandi. Perché in politica, non ci sono buone ricette, se non sono preparate da un bravo cuoco.
La Stampa 20.09.12