attualità, politica italiana

"Perchè deve dimettersi", di Massimo Giannini

Basta guardare le foto della trucida serata in costume al Foro Italico. Quel festino buzzurro, dedicato agli dei dell’Olimpo, è in realtà il penoso Satyricon di una pseudo «classe dirigente» cafona, disonesta e irresponsabile. Quel rito ruffiano e villano riflette le miserie di una certa destra romana e laziale, ma amplifica una certa idea predatoria della politica che domina l’intera scena italiana. In quel rozzo carnasciale capitolino, anche Renata Polverini è ormai una maschera tragicomica. Per questo, neanche lei merita di rimanere al suo posto un minuto di più. La Sprecopoli all’amatriciana che travolge la Regione è
uno scandalo infinito. Magari più triviale nella forma: le tuniche bianche della Magna Grecia e le ostriche da «Pepenero», i villoni zotici al Circeo e le residenze a Tenerife, le escort discinte e i Suv neri. Ma uguale, nella sostanza, a tanti altri esplosi in questi ultimi mesi (da Lusi a Bossi): soldi pubblici per pagare vizi privati. Con un’aggravante in più: di fronte al saccheggio sistematico perpetrato dall’intero gruppo dirigente del glorioso Partito delle Libertà, di tutto si può parlare fuorchè della solita, autoassolutoria «mela marcia».
Nella Gotham City laziale, a fare carne di porco dei fondi di partito, non c’è solo «er Batman» di Anagni. Franco Fiorito, nell’intervista rilasciata ieri a questo giornale, chiama in causa tutto il vertice consiliare, da Miele a Battistoni. L’inchiesta farà il suo corso, la magistratura accerterà le colpe e deciderà le pene. Ma le cifre parlano da sole. Dopo due anni di allegra gestione del «federale» ciociaro, dalle casse del Pdl sono spariti 6 milioni di euro: in cassa ne restano solo 400 mila.
La Regione Lazio è una formidabile macchina macina-soldi e moltiplica-poltrone: 15 assessori, 71 consiglieri regionali, 17 gruppi consiliari, 16 commissioni permanenti, 3 commissioni speciali. I consiglieri laziali percepiscono uno stipendio base, più cinque indennità specifiche, che porta il totale a 13.321 euro al mese: il doppio di quello dei consiglieri lombardi. Il gruppo del presidente della Regione, con solo 13 eletti, incassa 2,6 milioni di rimborsi elettorali dallo Stato.
Ora la governatrice, sommersa dal fango auto-prodotto dal suo quartier generale, costringe la giunta a tagliare del 30 per cento i trasferimenti al Consiglio regionale, a ridurre il numero di commissioni e a limitare il parco delle auto blu. Ma dov’era Polverini in questi anni, mentre il suo avido «inner circle» si distribuiva privilegi, favori e prebende di ogni tipo? Dov’era, mentre i suoi assessori si spartivano vitalizi per 1 milione l’anno, e il suo fotografo personale lucrava dalla Regione contratti da 75 mila euro l’anno? Dov’era, anche lei, se non ai coattissimi Toga Party di Carlo De Romanis?
Tre giorni fa, la governatrice ha avuto comunque il coraggio tardivo di scoperchiare il verminaio di fronte agli italiani. In una drammatica seduta del Consiglio regionale, Polverini ci ha messo finalmente la faccia e ha chiesto scusa ai cittadini. Ha parlato di una enorme «catastrofe politica». Ha evocato un cancro estirpato (il suo, per il quale le dobbiamo i nostri auguri più sinceri) e un cancro da estirpare (il gigantesco malaffare che dilaga nel Pdl e nella sua Giunta). «O si cambia, o si va tutti a casa», ha tuonato con un impeto che finora l’aveva scossa solo in qualche intemperanza rissaiola sulla piazza di Genzano o alla fiera del peperoncino di Rieti.
Ma poi si è fermata lì. Il «cambiamento » tanto invocato non c’è stato per niente. O è stato solo di purissima facciata. Un taglietto qua e là, qualche incarico in meno e qualche macchina di servizio in garage. Niente di più. Così ieri la governatrice ha rilanciato l’ennesimo e ormai grottesco «penultimatum ». «Serve una svolta, o me ne vado». Ma non se n’è andata. Forse non se ne va. Dopo aver legato a suo tempo con Gianfranco Fini e poi «trescato» con Pierferdinando Casini, ora deve discutere niente meno che con Silvio Berlusconi, preoccupato dalle impatto negativo di una sua eventuale uscita di scena sugli equilibri nel partito e sulle prospettive nel Lazio.
È la solita farsa italiana, dove prevale la regola del «tutti colpevoli nessun colpevole». «L’antipolitica siamo noi», ha gridato la governatrice ai suoi, livida di rabbia e indignazione. Giustissimo. Ma allora bisogna trarne qualche doverosa conseguenza, se non si vuole che tutto (sprechi, scandali e guarentigie dell’esecrata Casta) finisca sempre e solo per ingrassare la piena del grillismo o dell’astensionismo.
Ed è anche la solita destra berlusconiana, dove l’impunità è la regola e la responsabilità (oggettiva o soggettiva) non esiste. «Cultura di governo», «nuovo blocco sociale »: quante se ne sono scritte e sentite, in questi anni, sul presunto capolavoro del Cavaliere, capace di far risorgere dalle ceneri della Dc, il «grande partito di massa dei moderati».
Eccoli all’opera, i sedicenti «moderati» del Lazio. Famelici e cinici. Uniti non dal valore della militanza, ma solo dal colore dei soldi. Un disastro, del quale Polverini non può non portare il peso politico. Non ha mai controllato e comunque non controlla più la sua Giunta e i suoi consiglieri.
E se Fiorito, davanti ai Pm, parla del «sacco della Pisana» come di un vero e proprio «sistema», allora nessuno si può chiamare fuori. Meno che mai chi, consapevole o meno, siede al vertice della cupola affaristica.
Come ci fu ai tempi di Piero Marrazzo (sia pure per ragioni completamente diverse), c’è oggi a maggior ragione un nodo politico che va tagliato, perché non si può più sciogliere. L’unico strumento per farlo sono le dimissioni. Immediate. «Vanno cacciati i mercanti dal Tempio del Pdl», ha urlato sdegnata la governatrice. Esca lei per prima, da quel finto «tempio » trasformato in un postribolo.

La Repubblica 20.09.12

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“Il toga party del centrodestra”, di FRANCESCO MERLO

Ricordate Berlinguer in braccio a Benigni, l’effetto simpatia, la politica ingentilita nell’incontro tra il leader e l’artista? Ebbene, paragonate quelle immagini con le foto della presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, accanto allo schiavetto dell’antica Grecia, una specie di Antinoo e di Aspasia.
RIFLETTETE quindi sull’effetto degradazione, sulla politica ridotta a bava trimalcionesca nell’incontro tra la leader della destra e il simulacro dell’artista, la donna capo che Berlusconi proprio in queste ore avrebbe voluto lanciare come suo successore e che precipita invece nel ridicolo di questa mascherata che fa da sfondo alla più colossale ruberia di danaro pubblico nella Roma della seconda repubblica.
Video e foto di questo ricevimento in costume che il festeggiato De Romanis, vestito da Ulisse, ha definito «sobrio e misurato», vanno molto al di là del cattivo gusto, del kitsch che in fondo è stato studiato da Gillo Dorfles come stile. Qui siamo nella pacchianeria grottesca e casuale, una vera sarabanda di puttanate, uno spettacolo di trivialità senza alcun nesso se si esclude l’idea che «semo romani» e dunque «semo pure greci». I grecoromani sono duemila, alcuni però vestiti da maiali con le mani che acchiappano cosce mentre le “puellae” in tunica si leccano i musi e finalmente la scrofa prende il posto della lupa capitolina. Direbbe forse Marcuse che l’Ergon metafisico del generone romano ha la meglio anche sull’Eros romantico da ammucchiata.
E lo sgangherato Vulcano, che sembra la controfigura dello Zampanò di Fellini mentre spezza le catene, è un consigliere comunale, un Paravia nientemeno, oggi con Storace, rampollo degli imprenditori degli ascensori. E ci sono pure l’assessore regionale Stefano Cetica, ex segretario della Polverini stessa, e Annagrazia Calabria, la più giovane deputata Pdl. Chi fa Mercurio e chi fa Plutone con una Olimpia Colonna nel ruolo della Medusa, e noi speriamo che questo ramo caduto sia anche cadetto.
Nella linfa della Roma carnascialesca ci sono i produttori televisivi come Aurelia Musumeci e i cosiddetti “public relation” come Olimpia Valentini di Laviano: «Ho un brutto vizio da pr e mi diverto a fare le campagne elettorali ». Come si vede, l’impiastricciata e gelatinosa antropologia, quella dai mestieri vaghi e imprendibili che altrove produce “i creativi”, a Roma subito si degrada nel galoppino elettorale e nel portaborse.
E nel video del cosiddetto backstage della festa tutti comunicano il loro divertimento emettendo suoni gutturali. C’è un omone grande e grosso che grufola e potrebbe essere Menelao o forse il divino porcaro Ermeo. Qualcuno più che a un antico greco somiglia a un turco o a un mongolo con i baffi spioventi. Costumisti e truccatori sembrano le sole persone normali, i gladi sono di plastica, il peplum ha i merletti appiccicaticci, la colla svela la natura dozzinale della scena, e c’è pure una cornucopia da dove fuoriesce una rosa che non sembra neppure una rosa tanto è brutta, e infatti viene stritolata da una mano di donna stretta tra due maiali e con le unghia laccate di un orribile blu opaco. La festa è così tamarra che ai suoi tempi non riuscì neppure a guadagnarsi la vetrina di Dagospia, solo un trafiletto sul Messaggero con la foto della Polverini e ovviamente un servizio su “Parioli Pocket”, che è
la rivista di riferimento degli aspiranti semivip della capitale.
Così diventa persino banale la Crapulopoli del Lazio, con i suoi conti correnti coperti, le cene, le case, le auto di lusso e il peculato. È vero che er Batman, l’ex capogruppo ed ex tesoriere del Pdl Francone Fiorito, assistito e ispirato dall’avvocato Taormina, il quale è un altro Batman ma delle cause perse, da ieri racconta ai magistrati «quel gran giro de quatrini» trascinandosi dietro tutti, ma proprio tutti, perché «la guera è guera» e, come si dice tra legionari non solo ciociari, «camerata, camerata / fregatura assicurata».
Ma rubare è quasi un dettaglio in questa sciagura etica ed estetica che è l’abuso dei simboli, dei miti e della storia antica, l’idea di patacca che la destra italiana ha della romanità e dell’antichità classica. Per capire quanto sia importante questo ciarpame nell’attuale
decadenza è bene sapere che il momento magico del miserabile suk della memoria è previsto il 27 e 28 ottobre con una grandiosa celebrazione della battaglia di Ponte Milvio e del miracolo di Costantino. Il sindaco Alemanno e il suo cerimoniere acculturato Broccoli stanno organizzando, riservatamente «per fare una sorpresa ai romani», una straordinaria festa celebrativa dell’identità cristiana di Roma con l’idea di stupire e forse pure di istupidire il mondo: «L’esperienza più eccitante mai vista, un monumento alla Romanità, qualcosa che i bambini delle scuole ricorderanno per il resto della loro vita». E benché il programma sia ancora top secret, Marco Perina, vicepresidente del XX Municipio, me lo illustra con fierezza vanitosa. Dunque «a Saxa Rubra, perché è li che in realtà nel 212 è avvenuta la battaglia e non sul Ponte Milvio, il 27 ottobre verrà ricostruito un castrum, un accampamento romano con macchine da guerra, tende, e ovviamente i centurioni, i decurioni…».
E l’indomani mattina verrà messa in scena la battaglia e «finalmente nei cieli dei colli fatali, al tramonto, un fascio di potentissime luci scriverà “in hoc signo vinces” mentre l’imperatore Costantino… ». Lo interrompo: lui in carne ed ossa? «Ma no che c’entra, un figurante…, leverà in alto la croce con il cerchio, che si chiama Chi-rò».
Infine Perina, che intanto si è infiammato, mi annunzia che «Costantino dopo aver trionfato sul pagano Massenzio passerà con i suoi uomini il Ponte Milvio». Gli chiedo se è per questo che il ponte è stato ripulito dai lucchetti dell’amore e Perina, vinta l’iniziale reticenza, ammette questo secondo miracolo: «Beh, certo non c’entravano molto con Costantino. E però i lucchetti non sono tanto male. Vedrai che li rimetteranno».
Ecco dunque che si capisce meglio perché questa foto della Polverini con il suo Antinoo riccioluto racconta l’epoca molto più dei verbali giudiziari, dello scandalo dei soldi pubblici finiti a ostriche, del costo della casta ciociara, dell’antropologia impresentabile der Batmàn che non è il popolo del Lazio che assedia Roma ma è la sua schiuma. La festa in (mal)costume sul viale delle Olimpiadi e sulla scalinata di Valle Giulia per divertire il vicepresidente del gruppo consiliare del Pdl non è stata insomma lo sfogo del solito burino pittoresco, non è l’assalto del Viterbese e del Frusinate che sfidano la capitale. C’è invece tutto il degrado politico e umano di una sottocultura che è stata per troppi anni vincente in Italia, la stessa del sindaco Alemanno che si traveste da spazzaneve, da vigile urbano, da idraulico, da spazzino e da stradino. E ogni 21 aprile presenzia alle sfilate del Natale di Roma, dà il via ai legionari e ai carri che percorrono i Fori imperiali, accende la miccia dei fuochi d’artificio al Circo Massimo, promuove la ricostruzione di un accampamento a villa Celimontana e due siparietti pastorali in onore del dio Pale che ricordano la pagliacciata di Bossi in onore del dio Po con il rito dell’ampolla.
Il presidente della commissione cultura di Roma Federico Mollicone organizza ogni anno il grande carnevale — un milione e mezzo di euro — e anche il sindaco Alemanno e sua moglie Isabella indossano i costumi presi in affitto al teatro dell’Opera per partecipare alla festa in maschera che la nobiltà romana organizza in piazza Colonna.
Dietro questo bisogno di nascondersi, di guardarsi allo specchio e di riconoscersi nella parodia del passato c’è lo spavento di un ceto sociale che, arrivato al potere come ruota di scorta del carro di Berlusconi, ha surrogato la legittimità con i baffi posticci, con le parrucche, con l’identità urlata e frullata dove Cesare si confonde con Pericle, dove la toga diventa tirso e viceversa, e la romanità è una specie di opera dei pupi, una fiction, uno show televisivo sì, ma di Teletuscolo… Eppure persino la sinistra si era illusa che a lungo andare questa destra potesse generare nel mondo berlusconiano una certa qualità sociale e culturale, nel nome degli Ugo Spirito e di Gentile, di Marcello Piacentini e della sociologia di Gaetano Mosca, e ancora della prosa Longanesi e della terza pagina di Monatnelli, con Ionesco, Junger, Rosario Romeo, a Nicola Abbagnano a Mario Praz. E invece abbiamo er Batman al quale dobbiamo lo scandalo della verità: non era, come pensavamo noi, solo un mondo inadeguato, quello della Polverini e di Alemanno. Ci sono pure i ladri e non soltanto i pessimi amministratori. Ma è soprattutto il mondo dei figli degenerati dei gladiatori di cartapesta, che almeno si limitano a molestare i turisti al Colosseo.

La Repubblica 20.09.12