Il federalismo fiscale diventa legge. Nella serata di ieri il Senato ha definitivamente approvato il provvedimento, facendo così calare il sipario su un braccio di ferro che la lega nord portava avanti da anni. Astensione per il Partito Democratico che, dopo l’approvazione di un suo ordine del giorno riguardante la necessità di riforme condivise, ha motivato la sua scelta.
“Questo testo è fortemente segnato dalle nostre proposte, – spiega Anna Finocchiaro, capogruppo PD al Senato – che sono state accolte e che hanno trasformato un disegno di legge che si ispirava a una visione egoistica del federalismo fiscale in un testo che invece si ispira a un principio di maggiore solidarietà e di maggiore sussidiarietà, che non solo non penalizzerà le regioni del Mezzogiorno ma potrebbe essere anche un banco di prova molto interessante per le classi dirigenti locali”. Merito delle battaglie portate avanti da Pd se il testo uscito da Palazzo Madama poco ha a che fare con quello presentato mesi fa alla Camera dei deputati e se “sancirà l’uguale diritto dei cittadini del Sud rispetto ai cittadini del Nord a vedere garantiti i propri diritti secondo un standard valido su tutto il territorio nazionale”
Scampato il pericolo maggiore quindi, ma la strada da fare è ancora lunga. Almeno quattro i punti su cui il Partito Democratico non può dirsi soddisfatto della nuova legge. “La prima questione – dice la Finocchiaro – parte dal federalismo fiscale e riguarda la politica del governo Berlusconi che ha tolto risorse ai Comuni e che non eliminando la rigidità dal patto di stabilità per i Comuni ha congelato risorse importanti che potrebbero essere investite nei territori, dando la possibilità agli enti locali di fare opere e di dare lavoro. La seconda questione ancora in ombra riguarda le riforme conseguenti al federalismo fiscale, a cominciare dall’eliminazione del bicameralismo perfetto, dalla riforma del Senato e dalla riduzione del numero dei parlamentari. Non è ancora poi nello stato in cui noi vorremmo che fosse la Carta delle Autonomie locali, cioè quel testo che è stato proposto da noi e successivamente dal governo, che definisce i poteri e le funzioni degli enti locali. Senza questa definizione non può vivere il federalismo fiscale. Infine non sono stati presentati i conti che permettono di valutare l’impatto del federalismo.
Sebbene il testo sia stato fortemente segnato dalla nostra proposta, e devo dire in un clima di collaborazione molto interessante e proficuo con la maggioranza e in particolare con il ministro Calderoli, questi 4 nodi ci determinano a non votare favorevolmente e ad astenerci”.
Sulla stessa lunghezza d’onda Luigi Zanda, vicepresidente dei senatori PD e primo firmatario dell’Odg accolto al Senato, che però sottolinea la necessità e l’urgenza di una nuova legge elettorale: “L’approvazione del federalismo fiscale in se non è né un bene né un male. Può diventare un elemento positivo se verrà attuata correttamente e se ad essa seguiranno tutti gli altri provvedimenti necessari a completare il sistema. Viceversa avrà effetti negativi. Approvare il Federalismo fiscale ripropone la necessità di una nuova legge elettorale, qualunque sia l’esito del referendum, e ciò prima di qualsiasi altra riforma istituzionale. L’attuale legge elettorale ha eliminato i collegi e non permette al cittadino di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento. Ciò indebolisce e leva autorevolezza al Parlamento e sottrae rappresentatività ai territori. Livelli elevati di autonomia come quelli che è possibile raggiungere col federalismo fiscale hanno bisogno di un Parlamento forte e realmente rappresentativo. Il che non è con l’attuale legge elettorale”.
Inoltre “la nuova normativa sul federalismo fiscale potra’ dirsi completata solo dopo l’approvazione da parte del Parlamento di ulteriori riforme. Per questo l’Ordine del giorno del Pd, accolto dal Governo e dal relatore di maggioranza, impegna il governo stesso e la sua maggioranza su varie rilevantissime questioni. Innanzitutto a ricercare in Parlamento ogni possibile intesa con i gruppi di opposizione sui temi delle riforme istituzionali. A promuovere una riduzione significativa del numero di parlamentari secondo quanto previsto da diversi Ddl di revisione costituzionale di iniziativa parlamentare già presentati. A promuovere la costituzione di una Camera rappresentativa delle autonomie contestualmente confermando il carattere unitario e indivisibile della Repubblica, e la forma parlamentare e rappresentativa dell’ordinamento repubblicano definito dalla Costituzione”.
E se il governo è stato disposto a collaborare in materia di federalismo, riprende la sua politica del “no a prescindere” quando si tratta di povertà. Disco rosso, infatti, per la mozione del Partito Democratico che prevede un prelievo sui redditi superiori ai 120mila euro e finalizzato a costituire un fondo da 500 milioni da destinare alle associazioni che si occupano di povertà. “E’ semplice e di buon senso che chi e’ ricco aiuti chi e’ povero” dice il segretario del Partito Democratico Dario Franceschini. Evidentemente non per tutti il binomio solidarietà-povertà è così cristallino.
“Assistiamo – osserva Franceschini – a una strana situazione comunicativa: siamo passati da una fase in cui il governo per settimane negava la crisi stessa, a differenza di tutti altri governi, che hanno coinvolto e responsabilizzato le opinioni pubbliche, ad una in cui improvvisamente si dice che la crisi e’ superata e che siamo oltre il tunnel”. E sulla misura bocciata rivendica, “costa quanto i soldi buttati con l’election day. Ci potrete rispondere si’ o no, ma non che non ci sono risorse”. “Ci sono migliaia di italiani che hanno
bisogno di aiuto, ma non gridano, non hanno sindacato: sono i poveri: la parola e’ uscita dal vocabolario della politica ma ci sono”.
In fondo il governo l’ha dimostrato nelle ultime settimane: la priorità è mantenere la poltrona, a qualunque costo. Quindi ben venga il federalimo, ben vengano i fazzoletti verdi che sventolano alla fine della votazione in parlamento. Tutto questo val bene qualche conto in rosso in più…
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