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"Tra libertà e responsabilità", di Barbara Spinelli

Ancora una volta, come l’11 settembre 2001, il volto stupefatto dell’America s’è accampato davanti ai nostri occhi. L’ambasciatore Christopher Stevens era appena stato ucciso, e Hillary Clinton non si capacitava.
«Perché è potuto succedere tutto questo? Perché in un paese, la Libia, che abbiamo aiutato a liberare? In una città, Bengasi, che abbiamo salvato dalla distruzione?» Dall’attentato alle Torri sono passati undici anni, e l’angoscia resta muta, quasi l’occhio non vedesse che orrore e buio.
Ancora una volta si risponde con le armi o con i droni, ma la parola è lenta a venire. Ieri Hillary Clinton ha denunciato il video anti-Islam, ma l’attonimento iniziale è significativo. L’occidente lancia al mondo la sua domanda — Perché non ci amate? — e mai fornisce una risposta, mai lo sguardo smette d’appannarsi, disperatamente miope. Il male è nero, e il nero non è dicibile. C’è il rischio di giustificarlo, se provi a vederlo, a capirlo. C’è il rischio di sovvertire il bene di cui ti credi l’artefice: le rivoluzioni arabe, le primavere democratiche, la guerra senza screzi in Libia. Il dilemma è comprensibile: se fai «parlare» il male, gli dai diritto di parola e di esistenza.
Invece bisogna capirlo, il nemico: e studiarlo, osservarlo, anche quando lo combatti, proprio se lo vuoi combattere. È evidente che il video sul Corano è un pretesto, che dopo l’uccisione di Bin Laden si voleva punire l’America, nell’anniversario dell’11 settembre, e scommettere sul peggio: la disfatta elettorale di Obama. Cercare di capire è tutt’altra cosa che giustificare, e non è nemmeno restare neutrali. Nella sua Teoria del Partigiano, Carl Schmitt scrive una cosa su cui vale la pena riflettere, in questi giorni d’ira contro il filmato trasmesso da organizzazioni vicine a Terry Jones, il reverendo che invoca i roghi del Corano: «Il nemico è la forma che assume la nostra questione ». Conoscerlo e misurarlo significa conoscere se stessi, la «questione su chi siamo».
Un video distruttore della figura di Maometto ha scatenato in vari paesi musulmani la furia di piccoli ma bene armati gruppi di estremisti. Furia divenuta sanguinaria, a Bengasi: non stupisce che abbia colpito un giusto, un ambasciatore che il Corano lo conosceva e lo rispettava. Anche i morti nel crollo delle Torri, nel 2001, erano innocenti — a loro modo giusti — delle malvagie politiche attribuite ai governi americani. Ma se vogliamo analizzare quello che chiamiamo nemico, e non ripetere sempre la stessa intontita domanda davanti alle telecamere, dobbiamo tentare qualche risposta, e cominciare a formulare quel che la violenza in Libia, Egitto, Yemen dice su di noi, sulle nostre illusioni, sulla «nostra questione».
La nostra questione è la forza prima infamante e infine incendiaria che può emanare da un video diffuso mondialmente su YouTube. Può emanare anche da vignette anti-islamiche, come si è visto in Danimarca nel 2005, o più recentemente da un libro, come quello scritto da Richard Millet in Francia
(Langue fantôme — Lingua fantasma, Gallimard). Questa forza di offendere ha un nome sacro, sancito dalle leggi liberali e specialmente inviolabile nella cultura politica statunitense: si chiama libertà di opinione, di espressione, di pubblicazione. È una libertà che non ammette limiti, che si fa forte dello spirito di tolleranza, che si inventa un Voltaire permissivo che non è mai esistito (non è sua la frase «Disapprovo quel che dite, ma lotterò fino alla morte perché possiate dirlo»). Voltaire difese dalla censura dei benpensanti testi e autori che esecrava: bisognava tuttavia che i testi contenessero qualcosa che per lui era una «verità, anche se triviale». Wikileaks e Assange per esempio portano alla luce fatti veri, e il loro diritto di parola va difeso: cosa che non accade. Non sputano bugie come quelle dette, solo per insultare, sul fondatore della religione musulmana.
La libertà d’opinione professata in democrazia diventa una questione nostra
— interpella innanzitutto noi occidentali, dice qualcosa su di noi — quando si trasforma in forza sovranamente indifferente alle conseguenze di quel che viene detto, ignara del rapporto fra parola e azione, negatrice della propria responsabilità. Quest’ultima non ha come scudo leggi egualmente cogenti, e articoli inviolabili delle costituzioni liberali. La responsabilità per le conseguenze di quel che diciamo o scriviamo o filmiamo non è egualmente protetta. È l’uomo pensante che mette insieme quel che l’istinto bruto disgiunge: la libertà e la responsabilità, il diritto di dire qualsiasi cosa capiti e il dovere di non sprezzare e declassare persone e religioni diverse. Un dovere che nelle società liberali abbiamo comunque, con o senza reciprocità.
Gli autori del video non sentivano questo dovere pensante, erano solo sicuri della propria libertà e delle leggi che la tutelano. Che importa se dico che Muhammed era un pedofilo, o quant’altro? Importa invece molto, come Max Weber insegna a proposito della vocazione dell’intellettuale e del politico: chi esercita tali professioni deve saper combinare l’etica delle convinzioni e quella della responsabilità, senza far prevalere l’una sull’altra e sapendo che l’equilibrio fra le due è fragile e sempre scabroso.
La libertà senza confini pensa di essere puro convincimento, e per questo la sua energia desta spesso ammirazione. Ma quando viene meno la responsabilità anche la convinzione vacilla, perde la purezza cui pretende: diventa non solo irresponsabile, ma falsificatrice della realtà. È quel che viene da dire sulle convinzioni dello scrittore Millet. Il suo libro, che sta dividendo i francesi, contiene una riflessione sull’attentato di Breivik nell’isola norvegese di Utoya, il 22 luglio 2011 (69 morti, più otto uccisi a Oslo). La convinzione di Millet è la seguente: Breivik è «il segno disperato, e disperante, del fatto che l’Europa ha sottostimato le devastazioni del multiculturalismo, e segnala anche la disfatta dello spirituale a vantaggio del denaro ». I giovani uccisi nel meeting socialdemocratico incarnano un’Europa «uscita dalla Storia», perché islamizzata e contrassegnata dalla «conversione dell’individuo in piccoloborghese meticciato, mondializzato, incolto e socialdemocratico — ossia la tipologia delle persone uccise da Breivik ».
Contrariamente a Millet, non credo che l’eccidio di Utoya sia una catastrofe perché gli europei sono affetti dalle malattie elencate nel libro (più precisamente, nel brano che ha per titolo «Elogio letterario di Anders Breivik », apparso sul Foglio il 30 agosto): malattie cui l’autore dà il nome di nichilismo multiculturale, perdita di identità, islamizzazione, denatalità, irenica fraternità. Quel che è stato veramente tragico a Utoya, è più semplice e quasi indicibile. Perché i ragazzi presenti nella riunione socialdemocratica non hanno organizzato una difesa, a Utoya? Perché non hanno escogitato espedienti, gettando sassi o tendendo tranelli, per limitare la furia di Breivik? Come mai sono andati come agnelli al macello? Alcuni di loro hanno reagito: tre adolescenti ceceni, abituati a una vita di guerriglia, hanno salvato ventitré ragazzi, prima gettando pietre poi nascondendoli in una grotta, e in Norvegia sono ricordati come eroi. Anche le vittime hanno responsabilità: questo è quasi indicibile. Il tremendo è che a volte, perché imprigionati o minacciati, hanno solo quella. Ecco un’altra
questione nostra.
Ma è diversa da quella di Millet o dei video anti-musulmani.
Lasciamo stare le false citazioni di Voltaire, quando parliamo di tolleranza. Voltaire non ha detto che bisogna esser tolleranti con gli intolleranti. Limitiamoci a constatare che la scelta è tragica (ci sono perle incomparabili nei pamphlet più antisemiti di Céline, non ve ne sono, pare, nel libro di Millet e tanto meno nei video contro il Corano) e che la frontiera tra libertà e responsabilità è un’esilissima linea. Ma una risposta dobbiamo cercarla, in noi stessi, se davanti alla violenza non vogliamo divenire sordomuti senza speranza.

La Repubblica 14.09.12

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“IL TEMPO LUNGO DELLE PRIMAVERE”, di BERNARDO VALLI

È lì che ho saputo della morte dell’ambasciatore americano a Bengasi. Me l’ha comunicato il giornale attraverso il cellulare. Ho subito dato la notizia ai miei interlocutori, una ventina di guerriglieri appartenenti al «Battaglione dell’Unità nazionale », uno dei tanti gruppi in guerra contro il regime di Bashar el Assad. Il pezzo di Siria che quei ribelli, attendati in un bosco, hanno finora “liberato” in più di un anno, come dicono, non deve superare qualche chilometro quadrato, a giudicare dalla vicinanza delle postazioni dei soldati lealisti che potevo vedere a occhio nudo.
Alla notizia hanno subito reagito con una domanda: «Perché proprio l’ambasciatore americano?». Non li stupiva tanto che fosse stato ucciso un ambasciatore ma che fosse quello americano. «Perché ce l’avevano con lui se l’America è contro Assad? ». Saputo del film offensivo per i musulmani, che sarebbe servito come pretesto, hanno voluto che specificassi se l’aveva fatto proprio lui, l’ambasciatore, insieme agli altri diplomatici ammazzati. Chiarito che era stato ucciso benché non ne fosse l’autore, ma perché rappresentava gli Stati Uniti dove l’opera blasfema è stata girata, si è accesa una breve discussione. Quello che era forse il capo, un barbuto dallo sguardo dolce, ha sostenuto che l’ambasciatore, a suo parere, non c’entrava. Mica era stato lui a offendere Maometto e l’Islam. Il più anziano della banda, con una bella faccia severa, e pure lui barbuto, ha invece suggerito di consultare il Corano. Sapendo che appartenevano a un’unità nazionalista, non salafita, e ancor meno jiadhista, ho chiesto se pensassero che la sharia dovesse essere la legge nella futura Siria liberata. C’è stata un’altra discussione dalla quale è uscito un verdetto: «Perché no? Non siamo musulmani?». Allora volete una repubblica democratica ma anche islamica, regolata dalla sharia, alla quale saranno sottoposti anche i cristiani e i laici? La parola “laici” li ha confusi. L’interrogativo li ha lasciati perplessi.
Quel che è importante per loro, questo è chiaro, è abbattere il raìs. Poi si vedrà. Il resto è nebbioso. Per ora, non solo nella stretta valle di Astra, ma dall’Atlantico al Mar Rosso, imperversa un ciclone di idee. Non pretendo di far passare la mia piccola esperienza nel bosco siriano come un esempio assoluto dello stato d’animo nel mondo arabo. Ma come in Siria, dove la “primavera” è degenerata in una interminabile guerra civile, anche nei paesi dove la transizione è meno violenta regna un grande caos ideologico. E di questo caos, che non è un’intrinseca intolleranza, approfittano facilmente gruppi di estremisti. Lontani affiliati o imitatori di Al Qaeda. Ce ne sono ovunque che possono essere catalogati così, a Tunisi, al Cairo, a Sanaa, a Damasco, ad Aleppo, a Bengasi. Non sono molti, ma si muovono in società vulnerabili, dove la religione è un’identità collettiva. Dove non c’è stata la bonifica illuminista. Ci vorrà del tempo per riassorbire il veleno. Le “primavere”, più o meno sfiorite, appassite, agitate, tuttavia sopravvivono. Sia pure sbatacchiate da ondate islamiche e a tratti agonizzanti. Conoscono anche forti sussulti di dignità dopo la vergogna. Nella colpevole Libia, non certo esempio d’ordine e di saggezza, la folla ha sfilato chiedendo scusa per l’uccisione di un americano amico, quale era l’ambasciatore Stevens. Anche le nostre democrazie hanno chiesto tempo. Viviamo un’epoca dominata dalla velocità, ma le idee non maturano con la rapidità di Internet. La loro lentezza è esasperante perché intanto cola il
sangue a Bengasi e ad Aleppo.
Sulle piazze delle insurrezioni all’inizio non c’erano tracce di antiamericanismo. Neppure in piazza Tahrir. Neppure sul litorale libico. Neppure in viale Burghiba. Ed era un’assenza sorprendente, perché era un sentimento diffuso. L’avvento di Barack Obama alla Casa Bianca, e in particolare il suo discorso del giugno 2009 al Cairo, quando tese la mano al mondo arabo, avevano attenuato i pregiudizi nei confronti della superpotenza. E poi ci fu il sostegno della Casa Bianca alle insurrezioni contro i rais. Al tempo stesso c’è stata però, una profonda delusione per l’evidente incapacità dell’amministrazione Obama di sbloccare il problema israelo – palestinese. La dichiarata illegittimità delle colonie nei Territori ha fatto spuntare molte speranze tra i palestinesi, negli arabi in generale, e ha ferito la fiducia israeliana nel grande alleato. E poiché non è poi accaduto nulla di nuovo la speranza dei primi è diventata rancore, e la ferita dei secondi non si è cicatrizzata. Anzi si è approfondita.
Insomma l’impegno iniziale di Obama in Medio Oriente, tanto carico di promesse, ha dato scarsi frutti. Quelli raccolti si sono dispersi per strada. Le morti di Bengasi non hanno certo migliorato la situazione. Hanno inevitabilmente ridotto il raggio d’azione degli Stati Uniti. La dichiarata decisione di non intervenire in Siria non potrà subire variazioni, se mai ci fossero programmi segreti. Gli americani dovranno anzitutto imporsi per ottenere la giustizia cui hanno diritto, anche perché non sia intaccata la loro autorità di potenza; ma al tempo stesso dovranno adottare misure di sicurezza eccezionali, quindi difensive, per le loro rappresentanze diplomatiche e i loro cittadini. E questo non giova all’immagine della superpotenza costretta a erigere cortine di sicurezza attorno a sé. Il caos ideologico arabo può sprigionare reazioni imprevedibili.
A poche settimane dall’elezione di novembre, Barak Obama ha visto entrare in crisi, più o meno profonde, i rapporti con quelli che erano considerati i principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente. Israele lo è ancora, ma il primo ministro, Benjamin Netanyahu, parteggia apertamente per il candidato repubblicano alla Casa Bianca. Tra l’altro molto più ben disposto a partecipare all’operazione auspicata da Netanyahu contro i siti nucleari iraniani, di quanto non lo sia il più che riluttante Obama. Ma l’ultimo colpo il presidente uscente l’ha ricevuto dall’Egitto, al quale l’America garantisce dal 1979 un aiuto economico secondo soltanto a quello riservato a Israele. Non a caso, con la piccola Giordania, il grande Egitto è il paese che ha rapporti diplomatici con Israele, appunto dal 1979. Benché l’abbia definito «né alleato, né nemico», il regime del Cairo è uno dei punti chiave della politica americana in Medio Oriente. Anche per questo, dopo essere stati da sempre demonizzati, i Fratelli Musulmani, sia pur rinsaviti, sono diventati validi interlocutori della Casa Bianca, appena si è prospettata la loro ascesa al potere. Mohammed Morsi, il loro presidente, è tuttavia andato in Cina e poi a Teheran prima di andare a Washington. E nelle ore drammatiche in cui si misurano le amicizie, quando Obama gli ha telefonato per chiedergli di proteggere con maggior energia l’ambasciata del Cairo presa d’assalto, Morsi avrebbe risposto che l’avrebbe fatto, ma che anche lui, Obama, doveva tenere a bada chi negli Stati Uniti insulta Maometto e l’Islam. Ha poi dichiarato che lui appoggiava comunque le manifestazioni pacifiche contro i blasfematori. Non erano in effetti le
condoglianze di un alleato.

La Repubblica 14.09.12