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"Chi boicotta la legge elettorale", di Claudio Sardo

C’è di che preoccuparsi di fronte ai ritardi, ai tatticismi, alle incertezze che minacciano di far saltare la riforma elettorale. In tanti giocano con il fuoco. Quelli che il Porcellum non è poi così male. Quelli che è meglio che si sfasci tutto. Quelli che una nuova legge potrebbe andare, purché renda improbabile una maggioranza politica e trattenga così l’Italia nella palude.
Non si rendono conto questi signori che, se il Parlamento non fosse in grado di modificare la legge Calderoli, l’ondata di discredito potrebbe travolgere le stesse istituzioni democratiche, mentre l’Europa sarà ancora alle prese con la durezza sociale della crisi economica e solo una politica più forte può produrre il necessario cambiamento di rotta. Non si rendono neppure conto che, se le elezioni avessero un esito nullo, l’eventuale nuovo mandato ad un governo simil-tecnico avrebbe un effetto di delegittimazione sulla legislatura.
Non è in palio soltanto una vittoria contingente (purtroppo, non si dovrebbero pensare le riforme elettorali con l’intento di manipolare le consultazioni successive).Cancellare il Porcellum è una necessità vitale della nostra democrazia. Perché quella legge ha prodotto un carico insopportabile di fallimenti e di sfiducia. Le liste bloccate hanno allargato a dismisura la distanza tra elettori ed eletti. E la promessa di coalizioni stabili è stata smentita clamorosamente, tanto nella legislatura del centrosinistra di Prodi che in quella del centrodestra di Berlusconi. Altro che cittadino-arbitro: il super-premio alle coalizioni è servito per prendere in giro gli elettori e per ridurre il loro potere di decisione. Quel premio era un imbroglio incostituzionale: ha favorito la frammentazione e non la stabilità, ha creato l’illusione del premier eletto direttamente ma il risultato più evidente è stato l’alterazione degli equilibri istituzionali.
La riforma elettorale peraltro era l’impegno principale assunto dal Parlamento, mentre il Capo dello Stato affidava a Mario Monti e al suo esecutivo il compito di guidare il Paese nell’emergenza e di rimontare la china del discredito su cui ci aveva spinto Berlusconi. Fallire oggi è una catastrofe politica e democratica. Per quanto la legge elettorale appaia distante dagli interessi materiali e dalle sofferenze sociali dei lavoratori, delle imprese, delle famiglie, ritornare alle elezioni con un sistema che tutti giudicano indecoroso e inaccettabile sarebbe quasi un suicidio.
Purtroppo qualcuno pensa di avvantaggiarsi dal fallimento. Lo pensano quelle forze nel Pdl e nella Lega che sembrano ormai animate da un solo scopo: impedire che il Pd possa formare un governo di centrosinistra. Lo pensano le forze che cavalcano il populismo di sinistra: anche loro preferiscono un Monti-bis o qualcosa di simile per poter dire che «sono tutti uguali». Calcoli drammaticamente miopi. Ma, siccome la riforma elettorale non può che nascere da una larga convergenza parlamentare, bisogna sperare che prevalgano ovunque le forze più ragionevoli.
Il Pd deve essere disposto a rinunciare a qualcosa pur di raggiungere un compromesso accettabile. Ma, appunto, il compromesso deve avere una dignità e una solidità. Ad esempio, si torna a parlare a sproposito di modello tedesco: ma si omette che la legge tedesca non contiene le preferenze, bensì l’uninominale-maggioritario per il 50% dei seggi. E che quella legge è accompagnata da solidi meccanismi di stabilizzazione dei governi: sfiducia costruttiva e regolamenti parlamentari che impediscono il passaggio da un gruppo all’altro. Da noi invece Pdl e Lega hanno fatto saltare la bozza Violante e hanno votato a sfregio per una riforma presidenziale con l’obiettivo di impedire l’introduzione della sfiducia costruttiva.
È chiaro a tutti che non si potrà modificare il Porcellum senza ripristinare una scelta diretta dei cittadini sui loro rappresentanti. Si può prendere la strada dei collegi o quella delle preferenze: ma chi pone veti o diktat, vuole boicottare l’intesa. In Germania, il mix tra uninominale-maggioritario e compensazione proporzionale consente una composizione virtuosa del Parlamento, dove il gruppo di maggioranza, quello su cui si regge il governo, è composto in prevalenza dai vincitori dei collegi mentre invece i gruppi minori e le opposizioni sono in prevalenza formati da parlamentari eletti nelle liste. È un equilibrio che consente di far pesare di più i territori nella politica della maggioranza. Il collegio elettorale è una risorsa, che i cittadini hanno già mostrato di apprezzare.
La riforma tuttavia è possibile solo se rende realmente competitive le elezioni. Se favorisce, come avviene ovunque, la formazione di un governo attorno al partito che ha raccolto il maggior numero di voti. Il premio del Porcellum è incostituzionale. Ma è possibile – senza stravolgere gli equilibri, anzi rafforzando il ruolo del Parlamento – assegnare un premio del 10-12% per dare al vincitore la possibilità di formare coalizione omogenee. Qualora di decidesse di dare il premio al partito, probabilmente invertiremmo quella tendenza alla frammentazione e al trasformismo che ha segnato la Seconda Repubblica: e, magari, già alle prossime elezioni potremmo avere i due maggiori partiti che si contendono il primato attorno a una cifra più vicina al 40%.
Perché la destra dovrebbe favorire una riforma nel momento in cui considera il Pd favorito? Perché dovrebbe favorirla la borghesia italiana, quella che strizza l’occhio a Grillo e al tempo stesso tifa per il Monti-bis? Perché il funzionamento della democrazia è un bene comune. E la Seconda Repubblica è causa non secondaria del fatto che la crisi italiana sia più grave che altrove. Con le forze di destra e di centro disposte ad un confronto leale, si potrebbe arrivare ad un comune impegno: dopo la riforma elettorale di oggi, aprire nella prossima legislatura un cantiere costituente. Non per cambiare la struttura della nostra Carta, ma per decidere insieme gli aggiustamenti della seconda parte. Era l’idea originaria dell’Ulivo. Oggi questa responsabilità è ancora più grande: senza riforma, l’Italia potrebbe non farcela.

L’Unità 12.09.12