«Vivaddio esistono anche rapporti di questo tipo, che ci fanno riflettere e ci costringono ad uscire dalla sbornia collettiva dello spread». Un sano richiamo alla realtà? «Certo. Trovo molto preoccupante questa cappa che da anni ormai avviluppa e schiaccia la società, per cui gli unici parametri presi in considerazione sono quelli finanziari, tra debito sovrano e peso della moneta. Sono decisamente salutari i rapporti di istituzioni e organizzazioni che ci costringono a ragionare sui processi reali, che sono il lavoro, l’impresa, il mondo della scuola, la disoccupazione, quella giovanile soprattutto. Che ci svegliano, e ci suggeriscono di prendere in considerazione altri punti di riferimento, oltre allo spread appunto». Il rapporto cui si riferisce il sociologo Aldo Bonomi è quello dell’Ocse, con la fotografia dell’Italia al penultimo posto tra i Paesi industrializzati considerati per investimenti nella scuola, il 9% del totale della spesa pubblica. Non proprio una sorpresa, ma comunque sconfortante. «Chiariamo subito: se non c’è investimento pubblico massiccio noi da questa crisi non usciamo. Va cambiato il punto di vista, la strategia, l’orizzonte. Il punto è che dobbiamo entrare in una logica diversa: questa che viviamo è una metamorfosi, che non riguarda il debito sovrano ma che ci parla di come cambiano i parametri di riferimento. Prendiamo il meccanismo di investimento formativo-scolastico: non possiamo pensare di puntare solo sulla competitività di un’élite, non è solo una questione di meritocrazia, cui finora si è perlopiù dedicato il ministro Profumo. Sull’argomento mi è piaciuto di più il ministro Barca (Coesione sociale, ndr), quando ha detto che bisogna ridefinire i rapporti tra scuola e impresa. È questo che dobbiamo mettere in conto, di cui sarebbe bene discutere. Da un lato sono le imprese che devono iniziare a ragionare sulla produzione di nuove merci, dall’impatto sostenibile, e dall’altro però bisogna capire che senza una strategia di investimento keynesiano per la scuola non si va da nessuna parte. Alcune architravi sono da difendere assolutamente. Tutti d’accordo sull’attenzione per le eccellenze, ma il problema è la medietà, che tra l’altro è il range su cui puntare anche per abbassare la feroce disoccupazione giovanile. Va messa in piedi una struttura adeguata». Il vicepresidente di Confindustria Lo Bello dice che troppi giovani scelgono percorsi di studio destinati alla disoccupazione, e troppe aziende non trovano i tecnici che cercano . «Ma infatti, bisogna trovare una dimensione intermedia vera. Abbiamo avuto una lunga stagione in cui i ceti medi avevano come aspirazione massima la laurea del figlio. Tempi in cui una laurea, al massimo un master post laurea, garantiva l’occupazione. Ma questa è una stagione finita, esaurita, archiviata. Io sono d’accordissimo con l’acculturazione generale, ci mancherebbe, però resta il problema di legarla ai processi reali, ai bisogni e alle richieste delle aziende e comunque dei processi produttivi. Che, ripeto, devono cambiare anche quelli». Mica facile, come si fa? Tra l’altro, non è che si possa nemmeno imporre alle persone un percorso di studio piuttosto che un altro. «È vero, è complicato. Di sicuro, è fondamentale un massiccio intervento pubblico in questa direzione. Comunque, la movida è finita, le famiglie saranno sempre meno in grado di fare welfare sostitutivo, come è accaduto finora, dobbiamo tutti tornare coi piedi per terra e ragionare con maggiore realismo. Cercando di capire in quale direzione stiamo andando». Lei parla di investimenti pubblici, il governo risponderebbe che mancano i soldi. «Figuriamoci. Come sempre, è una questione di priorità. Certo che se tutte le risorse devono obbligatoriamente servire per tamponare le crisi finanziarie che si susseguono, i soldi per la scuola non si troveranno mai». La nostra già scarsa mobilità sociale rischia di arrestarsi del tutto? «La sensazione è che tutti siano fermi nella difesa corporativa della loro posizione, nonostante questa turbolenza di cambiamento che ci investe e che tendenzialmente imporrebbe invece una maggiore mobilità sociale. È così: ogni volta che si tocca un ordine professionale, per fare un esempio evidente, scatta la difesa corporativa. È necessario un cambiamento: bisogna entrare in una logica di governo che unisca il governare comandando con il governare accompagnando i processi di cambiamento in atto. Finora i tecnici hanno solo governato comandando».
L’Unità 12.09.12
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