attualità, politica italiana

"I proprietari del movimento", di Curzio Maltese

«Uno vale uno». Milioni di italiani si sono rivolti al movimento Cinque Stelle per questo slogan, perché da anni trovano chiuse le porte dei vecchi partiti, occupati da irremovibili burocrazie. Beppe Grillo prometteva e ancora promette democrazia dal basso, candidati presi dalla strada, valutati sulla base delle competenze e sottoposti al consenso della base, nella fedeltà assoluta al principio sacro: «uno vale
uno». Si tratta in gran parte di discorsi già sentiti da tutti i partiti padronali che hanno affollato la scena degli ultimi vent’anni all’insegna della politica delle «facce nuove», dalla Lega in poi. Ma tale deve essere la disperazione dei cittadini di fronte all’incapacità del sistema politico di cambiare, che anche stavolta hanno voluto crederci in massa. Man mano che il movimento di Grillo è cresciuto nei sondaggi e nei consensi reali, i comportamenti reali del capo e del suo alter ego, Gian Roberto Casaleggio, cominciavano a contraddire i principi. «Uno vale uno», ma il marchio del partito è registrato commercialmente a nome di Grillo Giuseppe, «titolare di ogni diritto». «Uno vale uno», ma se un esponente di spicco e della prima ora, come Tavolazzi, pretende di discutere l’assetto proprietario dei Cinque Stelle, può venire espulso da un’ora all’altra dal padrone, che lo comunica alla sottostante base in un post scriptum di due righe e «non» segue dibattito. «Uno vale uno» e contano soltanto i voti dei cittadini, ma se il candidato Cinque Stelle più votato, Giovanni Favia, si lascia sfuggire giudizi pesanti sull’intoccabile Casaleggio e denuncia l’assenza totale di democrazia interna, diventa ipso facto un traditore, un venduto, un porco in combutta coi vecchi partiti, soprattutto col Pd, come scrive oggi il sito di Grillo. Specificando per la prima volta che il principio «uno vale uno» è stato «completamente travisato» e «non significa l’anarchia ». Involontaria citazione da Orwell. «Tutti gli animali sono uguali. Ma alcuni sono più uguali degli altri».
Davanti a queste contraddizioni, i simpatizzanti di Grillo si dividono in due categorie. I fideisti assoluti e coloro che coltivano un ragionevole dubbio. Per i primi è inutile scrivere. Qualsiasi contraddizione del loro capo è da attribuire a un complotto contro di lui da parte della partitocrazia e dei suoi servi giornalisti. Grillo può dire e contraddire, lanciare o meno pogrom contro gli immigrati, assolvere la mafia dai peccati, inventarsi che la bomba di Brindisi era un attentato contro di lui, pagare o non pagare le
tasse e giustificare gli evasori, aderire ai condoni di Berlusconi, inquinare con la sua barca mezzo golfo ligure, triplicare il reddito da quando fa politica, espellere un dissidente al giorno. Può denunciare il giornalismo al servizio dei partiti e poi pagare spazi televisivi e usare tirapiedi giornalistici a frotte. Oggi ce ne sono due sul sito, l’autore della scomunica a Favia, che scrive sotto evidente
dettatura dei suoi capi politici Grillo e Casaleggio, dunque un portaborse, e un altro che denuncia i finanziamenti pubblici ai giornali (tema sul quale sono d’accordo), ma dimentica il più finanziato di tutti (l’Unità), dove guarda caso lui scrive. I fideisti sono d’accordo, a prescindere. Come i leghisti e i berluscones di ferro. Chi contesta è un venduto.
L’altro giorno ne ha fatto le spese lo stesso Grillo, che per gioco aveva pubblicato su Facebook una finta prima pagina del
Corriere
con le accuse più assurde di finti compagni di classe sotto un titolo gigantesco: «Citofonava e scappava!». Ebbene, la maggior parte delle reazioni dei grillini era di questo tenore: «Giornalisti porci, che cosa non farebbero per le sovvenzioni!». «Vergogna, venduti! », «Lo facevo anch’io da ragazzo, sarebbe una ragione per screditare Grillo?», «Beppe, resisti!» e così via. È curioso come un movimento fondato da un comico raccolga tanti sostenitori del tutto privi di senso dell’umorismo.
Esiste poi, per fortuna, una maggioranza di potenziali elettori dei Cinque Stelle composto da cittadini dotati della facoltà del dubbio, che meritano una risposta seria e non un post affidato a un sicario. Anzi, molte risposte. Per esempio. Chi e con quali criteri deciderà le candidature al Parlamento del movimento? Qual è il reale ruolo della Casaleggio associati e a quale titolo? Non sarebbe il caso di restituire la proprietà del marchio ai militanti, invece di lasciarlo depositato alla Camera di commercio come fosse il brand delle odiate multinazionali? Non eravate contro il copyright, come i Piraten tedeschi? Perché sul logo deve per forza figurare il nome di un padrone, per giunta neppure candidato? Perché Grillo e Casaleggio non rispondono mai nel merito delle accuse sulla mancanza di democrazia interna, non si dice alla stampa sporca e cattiva, ma neppure ai propri militanti (Tavolazzi, Favia) o ad autorevoli esponenti del parlamento europeo? Per evitare equivoci, si tratta di domande molto meno gravi di quelle che abbiamo rivolto per anni ad altri leader, da Berlusconi a Bossi, da Bersani a Di Pietro o a Vendola, per la verità quasi sempre senzasuccesso.MaGrillo,cheproclama di essere così diverso da loro, senz’altro ci risponderà. O no? Intanto dovrebbe almeno rispondere alla domanda lanciata sulla rete da Giovanni Favia. La stessa che prima o poi tutti i leader di partiti padronali si sentono rivolgere dai dissidenti: «Che fai, mi cacci?».

La Repubblica 09.09.12

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“La strana idea di democrazia che aleggia in testa a Travaglio” di Pietro Spataro

Che un consigliere abbia paura di dire pubblicamente ciò che pensa è un fatto molto preoccupante. Che non riesca a dire apertamente che nel movimento a cui appartiene non c’è democrazia e vige un sistema padronale dominato da un personaggio «spietato e vendicativo», è il sintomo evidente di una grave anomalia.

Per Marco Travaglio, invece, la denuncia fuorionda di Giovanni Favia contro il metodo con cui Grillo e Casaleggio governano i Cinque Stelle è il sintomo evidente di «salute e di vitalità».

Lo scandalo è altrove, ovviamente: cioè in quella «fogna chiamata politica» dove s’aggirano solo «ladri, mignotte e vecchie muffe». E dove, come ci spiega il Fatto di ieri qualche pagina più avanti, vige la «democrazia dei brogli» con «tessere finte e congressi truccati».

Diciamo la verità: è una strana idea di democrazia quella che aleggia nei pensieri di Travaglio. Se consentire al capo di un partito di dettare comunicati e impartire ordini ai suoi adepti attraverso un computer, se assolvere o condannare usando un blog o espellere i dissidenti con un battito di web sono considerati atti democratici, vuol dire che si è persa completamente la bussola.

Quando si è prigionieri della sindrome populista evidentemente non si riesce più nemmeno a discernere il vero dal falso. Quella che Grillo chiama con enfasi «iper-democrazia» si sta rivelando niente di più che la regola ferrea di una caserma governata con gli insulti e i diktat. Nella quale le idee degli altri, nonostante la demagogia delle consultazioni on line, contano meno di zero se non sono in sintonia con quelle dei due grandi capi.
Tant’è che un signore che aveva provato a dire la sua, Tavolazzi, è stato cacciato senza nemmeno l’ombra di un regolare processo e l’onere della prova. Lo stesso Favia ora viene accusato di aver ordito il complotto con un fuorionda concordato e non rubato e vedrete che sarà messo alla porta. E il sindaco di Parma Pizzarotti, che si era permesso di dire in un’intervista che serve un congresso, è stato costretto a fare autocritica e a rettificare in malo modo.

Definire tutto questo un sintomo di vitalità ce ne vuole. Farlo sembra invece solo un esercizio di equilibrismo tipico di un giornale che pensa di difendere la verità rivelata e considera nemici tutti quelli che possono metterla in discussione. Che il Fatto sia diventato l’organo ufficiale di Grillo e Casaleggio è ormai un dato, basta leggere ogni giorno quel che scrive.

Problemi loro, naturalmente. Ma un po’ di sobrietà nel difendere l’indifendibile non guasterebbe da parte di chi impartisce lezioni di moralità e di giustizia. D’altra parte però che cosa ci si può aspettare di più da Travaglio? Tempo fa confessò di aver votato Bossi, che dirigeva un partito nel quale la democrazia non è riuscita a trovare nemmeno uno scomodo strapuntino.

Evidentemente Travaglio è affascinato dagli uomini forti: quelli che, come diceva una vecchia pubblicità, non devono chiedere mai.

da www.unita.it