Il pensiero cattolico ha visto con fastidio costante (…) l’idea dello Stato che è sovrano sia quanto ai mezzi sia quanto ai fini dell’azione collettiva. (da “Dal Risorgimento al Fascismo” di Domenico Fisichella — Carocci, 2012 — pag. 127).
Non s’era ancora spenta la commozione per la scomparsa di monsignor Martini, padre spirituale del cattolicesimo progressista e pastore di una Chiesa moderna, che s’è riaccesa la polemica sul regime fiscale degli immobili ecclesiastici su cui il governo ha buttato subito acqua sul fuoco. Forse l’accostamento tra i due eventi può apparire inopportuno o irriguardoso, mentre la figura dell’ex arcivescovo di Milano — uomo del dialogo e grande comunicatore — merita certamente rispetto anche da parte dei laici. Ma sul piano mediatico la coincidenza ripropone la questione del rapporto fra il potere temporale e il potere spirituale della Chiesa, all’origine della “diversità” culturale di Martini all’interno della gerarchia ecclesiastica. E quindi, il problema storico delle relazioni fra lo Stato italiano e il Vaticano.
Pochi giorni dopo essere stato nominato cardinale, il 6 febbraio del 1983 Carlo Maria Martini aveva fatto precedere il ritorno a Milano da due tappe significative. In mattina a Rho, nel santuario dei padri oblati diocesani, scelto come “luogo di preghiera”, aveva ricevuto la delegazione delle autorità cittadine, offrendo loro vino da messa in un incontro all’insegna della semplicità. Nel pomeriggio, era andato in visita all’istituto per handicappati “Sacra Famiglia” di Cesano Boscone, scelto come “luogo di sofferenza”. “Vorrei che questi punti di partenza fossero un simbolo”, spiegò lui stesso dal palco allestito sul sagrato del Duomo, di fronte a una folla di fedeli che s’erano raccolti nella piazza mentre la cattedrale era già gremita.
Fu dopo la funzione religiosa, durante il ricevimento seguito nei saloni dell’arcivescovado, che la cerimonia d’insediamento si trasformò spontaneamente in un fatto di società, un’occasione d’incontro, aperta anche alla Milano laica delle istituzioni, delle professioni e degli affari, della cultura e del giornalismo. La processione degli invitati sfilò di sala in sala, fino all’ultima. E lì monsignor Martini, austero e imponente, ringraziò tutti ricambiando con un piccolo ricordo. In una scatoletta rossa, consegnò a ciascuno degli ospiti una medaglia di bronzo con l’immagine di sant’Ambrogio da una parte e una scritta in latino dall’altra: “Pro veritate adversa diligere”, il motto scelto al momento dell’ordinazione ad arcivescovo. La frase completa, tratta da san Gregorio Magno, dopo “adversa diligere” aggiunge testualmente “et prospera formidando declinare”. Tutta intera, raccomanda saggiamente di amare le avversità ed essere cauti di fronte al successo, in nome della verità.
Ecco, se c’è una parola in cui si può riassumere il magistero di Martini è proprio questa: verità. E come raccontano i Vangeli, è quella su cui s’impernia la predicazione di Cristo in terra. Lo stesso profeta che scaccia i mercanti dal tempio, condanna i farisei come ipocriti, difende l’adultera dalla lapidazione. Autorità spirituale e potestà temporale, appunto.
Prima dell’Unità d’Italia, “lo Stato della Chiesa – come osserva Domenico Fisichella nel volume citato all’inizio – taglia territorialmente in due, dall’Adriatico al Tirreno, la penisola. E questa è una delle ragioni essenziali del ritardo italiano nella edificazione del suo Stato nazionale”. All’epoca del Risorgimento, fu poi Camillo Benso di Cavour a riprendere la celebre espressione “libera Chiesa in libero Stato”, esortando il Papa a separare il potere spirituale da quello temporale sui suoi possedimenti, in modo da favorire la convivenza fra Stato e Chiesa. Ma oggi, alla luce delle polemiche sull’Ici o sull’Imu, forse è arrivato il momento di mutuarla in “povera Chiesa in povero Stato”: per auspicare cioè una Chiesa che non rivendichi più privilegi e guarentigie nei confronti di uno Stato oppresso da un colossale debito pubblico e costretto perciò a imporre pesanti sacrifici ai suoi cittadini. Fermo restando che hanno diritto all’esenzione gli edifici dedicati esclusivamente o prevalentemente al culto e al volontariato, gli immobili del Vaticano che invece producono reddito – palazzi, abitazioni, uffici, alberghi, scuole, ospedali, case di cura o cliniche per un gettito stimato in 600 milioni di euro – non possono più essere sottratti al controllo del fisco. E non solo per un’elementare ragione di equità nei confronti di tutti gli altri contribuenti, pubblici o privati, quanto per salvaguardare la stessa autorità e credibilità della Chiesa verso i credenti e i non credenti. La Chiesa di Cristo, testimoniata da monsignor Martini, è una Chiesa povera, semplice, umile. Una Chiesa che, in linea con l’opera di purificazione avviata ora da Benedetto XVI, non ha nulla a che vedere con l’amministrazione dei patrimoni immobiliari, con gli affari della Banca vaticana e men che meno con il riciclaggio di denaro.
La Repbblica 09.08.12