L’Iliade, l’archetipo della letteratura occidentale è appena cominciata (con la parola “ira”, per altro), e già due eroi, Achille e Agamennone, litigano. Per una donna (la schiava Briseide), certamente; ma è un litigio politico: i due sono entrambi re, capi di uomini; in quella disputa non è in gioco soltanto l’Ego debordante e fanciullesco di due protagonisti dell’infanzia del mondo; ne va del loro ruolo pubblico, della loro capacità di sopportare la vergogna, il giudizio altrui, e non solo della loro dignità privata. O meglio, le due dimensioni sono inscindibili. E infatti per delegittimarsi politicamente (come capi) i due si insultano personalmente (come uomini): «avvinazzato, tu hai lo sguardo del cane e il cuore di un cervo», dice Achille (il cane è l’emblema dell’impudenza, della mancanza di vergogna; e il cervo della viltà); e l’altro gli ha appena detto «sei odioso, devi imparare che sono molto più forte di te». L’insulto in questa sua forma politica essenziale è un’aggressione – questo è il significato di “insultare”: “saltare addosso” – che consiste nella diminuzione del prestigio, della gloria, dell’avversario; per colpirlo al cuore, nell’immagine di sé, prima che nel corpo; per comunicare disprezzo e quindi incutere timore. È parola violenta che prepara la violenza fisica.
L’insulto tipico è quello che riduce il nemico a meno che uomo, mettendone in dubbio la virilità, o meglio ancora paragonandolo a un animale, possibilmente immondo: “cane”, appunto; ma anche “porco”; oppure, più signorilmente, “pidocchio” – così si espresse Togliatti nel 1951, paragonando i due comunisti reggiani dissidenti, Cucchi e Magnani, ai pidocchi che possono annidarsi «anche nella criniera di un nobile cavallo» (il Pci; il cavallo non si presta all’insulto, sostituito dal più inespressivo, “asino”; mentre è sempre andato forte il “verme”). In ambito teologico – che in realtà è spesso anche politico –, «becchi privi di ragione» definisce Lutero i polemisti cattolici, mentre la corte papale è per lui “Babilonia”, la «grande meretrice» dell’Apocalisse, seduta sulla «bestia dalle sette teste e dalle dieci corna».
Si sarebbe potuto pensare che l’avvento delle moderne geometrie del potere – un processo che è avvenuto sotto il segno di un’altra bestia biblica, il Leviatano (il titolo dell’opera di Hobbes) – avrebbero eliminato la necessità di personalizzare la politica, trasformandola in un campo di impersonali funzioni di potere, dove si affrontano idee o interessi, forze storiche e orizzonti ideologici; in un mondo adulto, in cui c’è posto per il rapporto amico/ nemico – che è una cosa seria, anzi mortale –, ma che in linea di principio non prevede l’odio personale, il disprezzo morale per l’avversario. Nella politica moderna dovrebbe esserci posto per la violenza oggettiva, ma non per gli infantilismi, per le parolacce.
Nulla di meno vero. Quanto più ci si inoltra nella modernità, tanto più la polemica politica si fa accesa, e l’insulto si fa feroce: il mondo moderno è segnato non
solo dal potere statale ma anche dalle ideologie, che sono sì impersonali ma hanno bisogno del nemico: inteso però non tanto come avversario da battere, ma come nemico dell’umanità, da eliminare. E quindi mentre permangono i riferimenti alle bestie (nella Marsigliese «tigri senza pietà» vengono chiamati i «despoti sanguinari» contro i quali i «figli della Patria» debbono marciare), nella modernità – in cui gioca un ruolo rilevantissimo l’opposizione vecchio/nuovo (e tutto il valore sta nel secondo termine) – abbondano le dichiarazioni di morte presunta, a carico dell’avversario: che cosa c’è di più vecchio, superato, sorpassato, di un morto? Che cosa c’è di più giusto che porre fine alla nonvita di un morto vivente? Non a caso già lo stesso Hobbes definiva la Chiesa di Roma (insieme all’Impero) uno “spettro”, che è in questo mondo ma non dovrebbe esserci (“salma”, come oggi dice Grillo); e sulla stessa linea Togliatti, che da comunista credeva nell’inesorabilità del progresso, usava citare, contro gli avversari politici, due versi dell’Orlando innamorato (nella versione di Berni), in cui si parla di un cavaliere colpito da Orlando, che, non accortosi delle ferite, «andava combattendo, ed era morto». Sull’opposto versante, la violenza verbale di D’Annunzio a Fiume – ricca di non pubblicabili riferimenti scatologici rivolti ai politici di Roma, oltre che di tratti razzistici – anticipa quella di Mussolini contro il Partito Socialista Unitario (spregiativamente definito “pus”) e le ributtanti polemiche antisemitiche del regime, rivolte contro chi non poteva difendersi né ricambiare.
L’insulto è, insomma, una forma di violenza politica, che dice poco di chi è insultato, e molto di chi insulta. Si deve quindi distinguere fra l’insulto asimmetrico di un potere ideologico che prepara la persecuzione, lo sterminio, la guerra a morte, e l’insulto fra pari, un elemento antropologico arcaico che esprime la fisicità della politica, un rituale espressivo che precede il combattimento, a cui ogni politico di professione è preparato (come ha detto Obama a proposito degli attacchi di Clint Eastwood). C’è anche, lo vediamo sempre più spesso, l’insulto dal basso, contro il potere, che fa parte della strategia comunicativa degli
outsider, dei populisti che parlano alla pancia del Paese (prima Bossi, ora Grillo); in bocca ai quali l’insulto è ovvio – meraviglierebbero di più le pacate argomentazioni –.
Ma in generale, in una democrazia – che non è uno stato di guerra, di aperto conflitto, di rivoluzione – non deve esserci spazio per l’insulto, per la violenza verbale, come non c’è per la violenza fisica. Il confronto sulle idee e sulle opinioni, per quanto appassionatamente difese, non può essere sostituito dall’assalto alle persone. Se ciò avviene, siamo davanti a una tipologia dell’insulto ancora diversa: all’insulto irresponsabile – che ignora il rischio che la violenza verbale inneschi quella fisica, che l’intolleranza accenda nuovi roghi –, e all’insulto che è una cattiveria vigliacca (magari smentita, fra i sogghigni, il giorno dopo). Astenersene sarebbe un gesto di sobrietà, di tolleranza, di civismo, di buona educazione; anche se la politica non è sempre un pranzo di gala, una “civil conversazione”, non è per nulla detto che la volgarità e la violenza verbale la rendano intensa e drammatica. Negli insulti di oggi non echeggia la grandezza omerica; semmai, si rivela lo squallido degrado della piccola politica, dei piccoli tempi, dei piccoli uomini, della piccola democrazia.
La Repubblica 06.09.12
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“PERCHÉ IL CORPO VIENE PRESO DI MIRA”, di FILIPPO CECCARELLI
Nel raro ed aureoDizionario della maldicenza( Ceschina, 1958 e 1965) di Dino Provenzal, preside di liceo, letterato, medaglia d’oro dei Benemeriti della Cultura, non stupisce solo quanti pochi politici viventi fossero elencati tra gli offesi, ma soprattutto si segnala il garbo, l’eleganza, la spiritosa grazia dei loro maligni denigratori. Per cui ad esempio il presunto assassino del Duce, Walter Audisio, è fatto bersaglio di un crudele epigramma di Malaparte; il sindacalista Di Vittorio diventa con fantastico nomignolo “il Favoliere delle Puglie”, e Montanelli scolpisce lapidi tipo: «Qui giace/ Guglielmo Giannini/ ucciso/ dal dolore/ di essere/ un uomo qualunque».
Ora, dall’aulico distacco all’odierno e svaccatissimo trash corrono 50 anni di slittamenti e di passioni ridotte in miseria. Ma quando dinanzi all’ennesimo sbocco di diarrea e di necrofilia, come di fronte all’inedito rutto (nell’aula consiliare di Vigevano), al solito gestaccio della consueta tripartizione (corna, dito medio, ombrello) o allo stanco riecheggiare di “fascisti”, “comunisti”, ecco, quando si sente dire che la vita pubblica si è imbarbarita, la tentazione sarebbe di assentire. E di chiuderla lì.
E invece no, perché in questo tempo cui può adattarsi la qualifica manzoniana di “sudicio e sfarzoso”, a loro modo gli insulti rispecchiano al meglio la più vertiginosa trasformazione di una politica che punta ormai al minimo comune denominatore, il corpo, per cui è sostanzialmente attorno ad esso che ruota il vituperio; e così per fare male a qualcuno l’attuale polemologia di Palazzo, incerta tra Bagaglino e cinepanettone, vuole gli si dica che puzza, che è brutto, grasso, basso, pelato, vecchio, malato, rifatto, che ha gli occhi storti o la dentiera, o è impotente, bavoso, culattone, bongo-bongo o pedofilo.
Molto di più non si raccomanda. La linguaccia di Bossi, che tanto ha dato in quest’ambito (si pensi a Casini “carugnit de l’uratori” o al professor Miglio designato “una scoreggia nello spazio”) è sfiorita e il Senatùr suona ormai patetico nella sua muta volgarità gesticolante: e i cronisti scrivono che ha mostrato “il classico dito”.
Segno dei tempi non è tanto che il ministro La Russa abbia mandato in quel posto il presidente della Camera Fini, ma che il Collegio dei Questori ne abbia trovato tecnologica conferma osservando il labiale alla moviola. Così come fa riflettere che il presidente del Consiglio abbia fatto raccogliere le varie in-
giurie in un volume a cura del capo ufficio stampa di Forza Italia Luca D’Alessandro, pubblicato da Mondadori nel 2005 con il titolo: Berlusconi, ti odio.
Semmai, è fuori dal recinto dei partiti che le ingiurie riscattano la banale e volgare anatomia mostrando la loro patologica vitalità con la potenza del fuori- programma. Come in fondo accadde a “Porta a porta” allorché con un guizzo il molesto Paolini riuscì a togliere di mano il microfono alla giornalista Rondinelli e a soffiarci dentro: «Berlusconi ce l’ha piccolo piccolo!».
Altrimenti sono lanci di fetidi residui organici, ma veri: è accaduto al ristorante di lusso torinese “Il Cambio”, davanti a Palazzo Grazioli, sotto casa del ministro Gelmini. Oppure sono autentiche docce di quell’altra sostanza prima versata e poi rivendicata (“la mia balsamica ampolla”) da Marina Ripa di Meana addosso a Sgarbi, per ragioni misteriose, ma con annesso video. Ed è come se la pratica o se si vuole l’arte di offendere prendesse corpo – lei sì! – vivendo ormai di vita propria a colpi di invenzioni, vibrazioni, ri-creazioni, video- installazioni, fantasmatici remix e cori spaventosi, anche di bambini, in visione su YouTube; e performance a base di mutande, sagome, sedie vuote, ostensioni di cartelli creativi (“Trombolo l’ottavo nano”); e fantocci bruciati, maschere e magliette indossate a tradimento (“Fornero al cimitero”), bellicose consegne di ortaggi, scarpe, stampelle, gabinetti.
Per essere barbarici, sembrano moduli convenientemente arcaici, ma anche piuttosto evoluti. Vedi il ripristino della maledizione attraverso un camion- vela dedicato a Brunetta, sogghignante in effigie, e la grande scritta: “Te potesse pijà un colpo”. Vedi la protesta contro la riforma della scuola effettuata trascinando un asino a viale Trastevere. In questo contesto, segnato da richiami spettacolari, personalizzazione, cultura del talk-show e relative trappole dell’intimità, si è inserito Beppe Grillo. E più del “Vaffa day” o degli altri suoi mortiferi improperi pare significativa l’accaldata processione che fece l’estate scorsa con il deposito finale di un cesto di cozze marce davanti a Montecitorio: «La crisi sono loro – gridava indicando la Camera – ritardati morali con gravi psicopatologie, hanno la prostata gonfia, per due tette e un culo sfasciano la famiglia, sono pieni di viagra, questo è un paese che non esiste più». Dentro, in aula, gli onorevoli si limitano a scandire malinconicamente “Tro-ta Tro-ta” contro la Lega, o “Crozza Crozza” per scimmiottare Bersani, o “Munni- zza Mu-nni-zza” ai danni di Scilipoti.
E verrebbe da stringersi al cuore il vecchio La Malfa che inveiva contro un monarchico: «Ella è un miserabbile». Piccola politica, oggi, piccoli insulti. L’unica consolazione, in fondo, è che si dimenticano subito.
La Repubblica 06.09.12
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