Crisi, si fa presto a dire riconversione. Ecco i pochi che ce l’hanno fatta. Dalle Fonderie Zen di Padova all’Eni di Porto Torres. Ma per l’industria pesante è molto più difficile. No, la soluzione non può essere solo il parco tematico. Nessuno si sente di sottoscrivere la proposta per le miniere del Sulcis ventilata l’altro giorno da Giulio Sapelli sulle pagine del Corriere della Sera. Però, certo, il paesaggio industriale italiano uscirà trasformato dalla grande crisi che sta attraversando, una gigantesca selezione naturale che lascerà sul campo morti, feriti e pochi sopravvissuti. C’è chi, come il columnist del Financial Times Peter Marsch, l’ha definitaThe new industrial revolution, titolo di un libro uscito a giugno secondo il quale questa crisi segna la fine della produzione di massa e l’ingresso in una nuova era, dove sarà premiato il connubio tra tecnologia e capitale umano, tra beni e servizi, e dalla quale l’industria pesante uscirà molto ridimensionata. Un libro che cita anche casi di successo in Italia. «Le miniere di carbone stanno chiudendo in tutto il mondo» dice lo storico dell’economia Giuseppe Berta «ma la risposta alla crisi industriale della Sardegna non possono essere i villaggi dei minatori delle Asturie. Il problema è infrastrutturare il territorio per ospitare altre attività economiche». Già, ma quali e soprattutto come? Un caso che ha fatto scuola è quello delle Fonderie Zen di Albignasego, provincia di Padova, in grave crisi nel 2009, con gli operai finiti in cassa integrazione che minacciano di saltare in aria insieme alle bombole a gas, salvata dal fallimento proprio da dipendenti e dirigenti e gestita con un modello che molti avvicinano alla co-gestione di tipo tedesco.
Alla maggioranza degli italiani nomi come Cooprint (Siena), D&C di Vigodarzere (Padova), Fantuzzi Reggiane (Reggio Emilia), Dalla Pietà Yachtas (Venezia) non dicono nulla, eppure si tratta di piccole aziende manifatturiere riconvertite con successo durante la crisi. Il problema è che in nessun caso si tratta di industria pesante. «La trasformazione delle miniere in un parco a tema non mi scandalizza, è già avvenuta da altre parti – spiega il sociologo Aldo Bonomi – ma non si tratta di ristrutturazioni industriali e, come insegna Schumpeter, l’economia dei servizi non sostituisce gli addetti della manifattura. Un caso di successo in Sardegna è quello del polo di Porto Torres dove l’Eni ha creato la cosiddetta chimica verde. Nel caso della lavorazione dell’acciaio la zona di Brescia offre esempi di successo ma tutti accompagnati da evoluzione del sistema produttivo e da pesanti dismissioni».
Operai associati in cooperativa hanno salvato il proprio lavoro alla Greslab di Scandiano e alla Art Lining di Sant’Ilario d’Enza, entrambe nel Reggiano. Capitali iraniani hanno salvato la Lofra cucine di Torreglia, nel Padovano, i cinesi della Wantong Group hanno comprato per quattro soldi da un’asta fallimentare la Dalla Pietà Yachts di Venezia, mentre la multinazionale americana Terex ha rilevato rilanciandolo un ramo d’azienda di una società specializzata nella produzioni di gru, la Fantuzzi Reggiane. «Però è più facile trovare casi di insuccesso di investimenti stranieri in Italia. In generale le multinazionali comprano aziende in fasi di espansione, spesso pagando cifre fuori mercato» spiega Marco Mutinelli, docente al Politecnico di Milano, che con Sergio Mariotti cura tutti gli anni il volume Italia multinazionale (la prossima edizione è in uscita a ottobre) sugli investimenti stranieri nel nostro paese. Un caso di insuccesso da manuale è quello del Nerviano Medical Sciences, il centro di ricerca oncologica alle porte di Milano, che ha divorziato da Pfizer e oggi è in mano alla regione Lombardia in cerca di investitori. Per trovare altri esempi di successo, invece, bisogna tornare ancora più indietro nel tempo, durante i tempi di relative vacche grasse. Il caso del Nuova Pignone, per esempio. Erano gli anni Novanta, anni bellissimi.
da Europa Quotidiano 31.08.12