Come chiamarla? Nostalgia per la politica? C’era più politica in due film di Venezia, Il fondamentalista riluttante di Mira Nair e Water di un collettivo di israeliani e palestinesi, di quanta ne abbiamo vista agitarsi nell’ultimo anno di risse televisive e in rete. Quella vera, intendo. Non il gioco di potere fra burocrati e demagoghi, politicanti e antipoliticanti in gara per esibire l’ego più arroventato. Ma la politica intesa come passione umana, quella che c’entra con l’amore per una donna, un uomo, i genitori o un figlio, la terra e la cultura, insomma con la vita. Arte e politica hanno in comune questo, di finire dove comincia il disprezzo per l’altro. Nel Fondamentalista riluttante non c’è un solo istante di disprezzo per l’altro. Neppure nella scena più scandalosa della storia. Quando il giovane pachistano Changez, laureato a Princeton e lanciato verso una carriera da squalo di Wall Street, vede alla televisione il crollo delle Torri Gemelle. E sorride. Una reazione inattesa, di cui subito si vergogna. Un tempo si pensava che una risata potesse seppellire i regimi. Il sorriso inatteso di Changez lo costringe a guardarsi dentro e a fare la propria rivoluzione, rinunciando al baratto fra identità e carriera. Tornato in patria come professore, si avvierà sulla difficile strada della lotta a ogni forma di fondamentalismo. Quello fanatico religioso e il fondamentalismo dell’impero americano e del suo autentico braccio armato, la finanza. Senza smettere per questo di amare a modo suo l’America, di sentirsi un “vero newyorkese”.
Le immagini di Mira Nair non sono travolgenti come la novella di Hamid, la più bella scritta sulle conseguenze dell’11 settembre. Nella necessità di confezionare anche un film per le sale americane, si perde l’assoluta bellezza di una storia d’amore, quello fra Changez e la bella americana Erica, narrata con un’intensità ormai sconosciuta alla letteratura occidentale. Se ne va un po’ della voluta ambiguità dell’originale, che è in forma di confessione del protagonista a un misterioso interlocutore americano, forse un sicario o al contrario la vittima di un agguato. In modo da lasciare sino alla fine nell’incertezza il lettore su quale dei commensali sia l’assassino.
Ma rimane sullo schermo la grandezza politica e morale della storia. Un magnifico, rivoluzionario elogio del dubbio. Un Conrad rovesciato, dov’è un giovane Kurtz pachistano a rivelare il cuore di tenebra dell’Occidente. Altro esempio di bella politica è Water, film minuscolo al confronto, frutto dell’incontro fra giovani registi israeliani e palestinesi. Sette episodi, alcuni straordinari, leggono l’eterno conflitto dal punto di vista della lotta per l’acqua, che sta per sostituire il petrolio nel motivo scatenante delle guerre future. Un progetto voluto dall’università di Tel Aviv, uno dei più avanzati centri di ricerca del mondo nel settore del risparmio idrico. Anche qui non si trovano spiegazioni facili, torti e ragioni ben separate, comode teorie del complotto.
Ora non resta che confrontare questi sguardi alti e intelligenti sui problemi del mondo con la miserabile bolgia d’insulti vomitati ogni giorno dal menu dei media sotto l’etichetta di “politica”. Ripensare alla retorica violenta che la peggiore pubblicistica rovesciò dopo l’11 settembre contro l’intero mondo islamico, a colpi di demonizzazioni e spettri ridicoli di Eurabia. Guardare ai tanti furbi venditori di rancore che si arricchiscono usando nuovi strumenti commerciali per ripetere la più antica sciocchezza del mondo: noi siamo solo buoni, loro sono i cattivi. E magari vergognarsi un po’.
La Repubblica 30.08.12