Tra le molte maledizioni di cui soffre l’Italia, ce n’è una che a intervalli regolari la insidia: ogni scelta cruciale si presenta sotto forma di dilemma tragico, irrisolvibile. Nella Grecia classica si direbbe: di aporia. Uno scontro mortale tra principi egualmente forti, e spesso egualmente validi. Solo che da noi manca la catarsi, che snoda i nodi. I nostri grovigli, tendiamo a viverli come ineludibili fatalità. Nel caso dell’acciaieria Ilva, il dilemma consiste nella scelta, inconcepibile in altri paesi europei, tra la morte di fame per il lavoro perduto e la morte per i tumori che la fabbrica ha continuato a espandere lungo gli anni, per inadempienza e corruzione. Nel caso della disoccupazione giovanile, il dilemma viene addirittura presentato come cruento gioco della torre. Visto lo stato di necessità che traversiamo, chi buttare giù dagli spalti: la generazione dei 30-40 anni o quella successiva? Non so cosa abbia pensato il Presidente Monti, nell’intervista del 27 luglio a Sette, quando ha pronunciato, con la leggerezza dell’apatia, un verdetto anch’esso poco immaginabile altrove in Europa: «Esiste un aspetto di generazione perduta, purtroppo. Si può cercare di ridurre al minimo i danni (…) ma più che attenuare il fenomeno con parole buone, credo che chi (…) partecipa alle decisioni pubbliche debba guardare alla crudezza di questo fenomeno e dire: facciamo il possibile per limitare i danni alla generazione perduta, ma soprattutto impegniamoci seriamente a non ripetere gli errori del passato, a non crearne altre, di generazioni perdute».
Più grave ancora il dilemma – l’aporia tragica – che è all’origine della pubblica discussione attorno alle inchieste della magistratura di Palermo e Caltanissetta, e all’intervento del Presidente della Repubblica che ha deciso di sollevare un conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani a seguito di telefonate intercettate con l’ex ministro dell’Interno Mancino, non ancora inquisito per falsa testimonianza. Non credo che Napolitano voglia ostacolare le inchieste siciliane sulle trattative fra mafia e parti dello Stato: più volte ha assicurato anzi il contrario. Ma condivido il timore espresso su questo giornale da Gustavo Zagrebelsky: il rischio esiste che l’iniziativa presidenziale assuma «il significato d’un tassello, anzi del perno, di tutt’intera un’operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la “trattativa” tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia».
Se mi soffermo su questo caso è perché tra i nostri dilemmi mi pare il più significativo, e il più periodico. Tra le critiche rivolte agli inquirenti dell’antimafia ce n’è una, che ricorre da vent’anni: l’accusa di protagonismo.
L’epiteto resiste a tutte le intemperie: chi ha letto il libro Le ultime parole di Falcone e Borsellino (Chiarelettere 2012), ne constaterà l’inossidabile natura, il suo ripetersi ossessivo. Ecco un altro nostro nodo che non si snoda. I magistrati sono sospettati di intromettersi nella politica e di farla, invece di lavorare in silenzio e risparmiare ministri e deputati: usano rilasciare interviste, impartire lezioni, e soprattutto denunciare l’irresponsabile non-presenza dello Stato. Non da oggi, ma dagli anni del maxiprocesso istruito dal pool di Palermo. Né Falcone né Borsellino bramavano le luci della ribalta. Se si esponevano con tanta frequenza, con accuse così esplicite, è perché percepivano l’isolamento cui erano condannati, l’insabbiamento che minacciava l’operazione verità. Non accade dappertutto, che un magistrato definisca se stesso un morto che cammina.
Lo stesso accade oggi a Antonio Ingroia, quando rilascia interviste colme di inquietudine. O a Roberto Scarpinato, Procuratore generale di Caltanissetta: il culmine l’ha raggiunto il 19 luglio, anniversario della morte di Borsellino, quando ha letto una lettera immaginaria all’amico ucciso dalla mafia vent’anni fa. Una lettera dura per i politici che ogni anno commemorano la strage di via d’Amelio: «Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà».
A causa di queste parole, il Consiglio superiore della magistratura presieduto da Napolitano ha aperto un fascicolo sul trasferimento d’ufficio del procuratore, rendendo perigliosa la sua nomina ai vertici della procura di Palermo. Lo stesso Csm ha attivato il procuratore generale della Cassazione, affinché verifichi se Scarpinato abbia utilizzato, nella lettera, parole censurabili con provvedimento punitivo. È il motivo per cui Zagrebelsky parla, rivolgendosi a Napolitano, di «eterogenesi dei fini»: sollevando un conflitto di poteri con i giudici di Palermo, Napolitano si inserisce, non intenzionalmente, in un contesto che vede i magistrati siciliani fortemente screditati, in difficoltà.
Non fu sollevato lo stesso conflitto nel ’93, quando il Presidente Scalfaro fu intercettato nell’ambito di un’inchiesta sulla Banca Popolare di Novara (la Procura di Milano depositò agli atti l’intercettazione, contrariamente alla telefonata Mancino-Napolitano). O quando nel 2009 fu intercettata una telefonata a Napolitano di Guido Bertolaso, indagato per gli appalti. L’intervento del Quirinale è legittimo, Scalfari ha ragione e Ingroia lo conferma. Così come sono comprensibili le preoccupazioni istituzionali espresse da Scalfari in una serie di articoli. Ma è legittima anche la domanda: perché proprio oggi, e non prima? Cosa c’è di così allarmante nelle inchieste siciliane, da smuovere le pubbliche istituzioni e da dividere fra loro giornali seri? È segno della ricchezza di questo giornale il fatto che ambedue le inquietudini siano presenti e conversino tra loro civilmente.
Forse tutto questo accade perché siamo alla vigilia di elezioni. Perché i partiti temono l’avanzare del Movimento 5 stelle. Forse, più semplicemente, perché l’Italia fin dal dopoguerra passa da un dilemma emergenziale all’altro, e mai arriva a quella che Zagrebelsky chiama la
tranquillità del diritto.
Anche sull’antimafia l’aporia resta irrisolta, dunque tragica: o vuoi sapere finalmente come ha funzionato il tuo paese – se sulla base di compromessi con la malavita oppure no – o convivi con misteri italiani eternamente inconoscibili. O la morte della verità, o la morte della politica e delle sue istituzioni.
Il problema è sapere come mai non sia possibile uscire da simili emergenze, e ritrovare la tranquillità politica in cui ciascuno fa la sua parte, e non quella dell’altro. Come mai, per imporre l’austerità in tempi di crisi, da noi sia necessario annunciare che esiste, nientemeno, una generazione perduta.
Come mai sia obbligatorio parlare di Grillo come di un «fascista del web». Come mai se critichi una mossa del Quirinale sei accusato (per quale malinteso o cortocircuito?) di voler abbattere Napolitano e Monti.
L’incapacità di stare responsabilmente al proprio posto – il politico per governare, il partito per fare programmi, il giudice per giudicare, il giornalista per scrutare e analizzare – è certamente all’origine dell’odierno sfacelo. È un’altra conseguenza non voluta delle azioni del Quirinale: il suo desiderio di blindare la carica (con quali conseguenze future?) influenza l’intera classe dirigente, di destra e sinistra, quasi che l’articolo 90 della Costituzione sull’irresponsabilità presidenziale divenisse prerogativa d’ogni politico. Segretamente, si direbbe che ciascuno, schivando il compito che gli compete, voglia Monti in eterno. Se qualcuno non è d’accordo, si fa una legge elettorale per impedirgli di sedere in Parlamento. Intanto si dibatte, all’infinito, su destra e sinistra. Sempre deliberatamente operando in modo che non venga mai l’ora delle responsabilità, dell’azione: della tranquillità del diritto e della politica.
La Repubblica 29.08.12