La democrazia rappresentativa è in crisi. Lo si legge con frequenza quotidiana. A questa, che sembra ormai una verità assodata, manca un codicillo di non poca importanza: non è in crisi dovunque. Né la sua riuscita è percepita come problematica ovunque. La democrazia rappresentativa è in crisi in Italia più che in Germania o in Finlandia o in Francia. Contestualizzare è necessario. Anche per comprendere bene la portata della partita che si sta giocando, non soltanto fra poteri eletti e non eletti all’interno dei confini nazionali, ma soprattutto fra gli stessi Paesi europei, tra quelli nei quali la democrazia è un fatto acquisito e quelli nei quali pare lo sia meno. Abbiamo appreso anche di recente che da Oltralpe si guarda con preoccupazione all’eventualità – che è un atto dovuto, costituzionale – che in Italia ci siano nuove elezioni e che Monti possa non essere più primo ministro. Leggiamo il testo preoccupato riportato qualche giorno fa su questo giornale in un articolo di Alberto D’Argenio: «Sul medio periodo il pericolo maggiore per l’Italia è che vengano smontati pezzi delle difficili riforme strutturali approvate dal governo Monti, così come il timore che ci siano arretramenti rispetto alle misure prese per mettere in sicurezza i conti pubblici». Il riferimento alle future elezioni è qui abbastanza chiaro e diretto. Nell’Europa dei Paesi nordici, dove c’è lo stesso sistema democratico che c’è in Italia, si teme che il ritorno dei partiti, e quindi le libere elezioni, metta fine all’impegno italiano di rientrare nei ranghi, riportando Roma ad essere un problema per il Continente. La democrazia rappresentativa preoccupa quando è praticata in Italia come non preoccupa quando lo è altrove. Nessuno si sarebbe sognato di mostrare preoccupazione prima delle elezioni francesi. Nessuno si sogna di dirsi preoccupato se Angela Merkel non verrà rieletta. Ma la democrazia rappresentativa praticata in Italia incute timore e desta preoccupazione.
La crisi della democrazia rappresentativa è allora una crisi di credibilità nella e della politica elettorale nel nostro Paese. Il Sud dell’Europa è sotto tutela – chi più chi meno, dalla Grecia giù giù fino al Portogallo, alla Spagna e all’Italia. È l’Europa non protestante o quella che, come la Francia, ha avuto il suo protestantesimo politico (come Piero Gobetti chiamò la Rivoluzione francese) a nutrire dubbi sull’uso della democrazia nell’Europa non protestante e non nordica. Questa preoccupazione è una forma di pensiero del quale temere gli effetti perversi. Si sente l’eco delle parole di Martin Lutero sulla libertà dei cristiani: una libertà perfetta nei cristiani riformati, e via via meno perfetta negli altri, sapendo i primi soltanto obbedire alla legge senza bisogno di un guardiano esterno. Letta questa diagnosi con le lenti politiche di oggi, si potrebbe dire che Oltralpe si pensa che non tutti siano capaci di sopportare la libertà, di vivere sotto un governo democratico usando bene la libertà politica. La pratica della democrazia come un bene che è di difficile uso, quindi, perché le sue scelte possono avere conseguenze preoccupanti. Questo sembra sia oggi il senso delle elezioni in Italia: una libertà che desta preoccupazione.
Noi diamo l’impressione delpaesi
la fragilità. La democrazia dei partiti da noi desta preoccupazione. È questo il segno della crisi della «nostra» democrazia rappresentativa. Ed è questo il senso della distanza che separa le democrazie del Nord Europa da quelle del Sud Europa (e l’Italia come centro del Sud). Una distanza molto visibile poiché, a leggere i giornali in questi giorni, nel Sud la politica democratica è meno sicura che al Nord e forse ha più scettici che al Nord. Stessi regimi, a Nord come a Sud, stesse procedure: eppure lassù la democrazia rappresentativa segue le sue regole senza sostanziali scossoni e senza destare problemi, mentre quaggiù i capipopolo sono sempre in agguato, e rendono le regole democratiche meno funzionali, più incerte negli esiti. E, come nei secoli passati, anche nell’Europa quasi unita (ma mai una), sembra che si torni ad accarezzare l’idea che il governo libero (leggi la democrazia rappresentativa) si adatti meglio ai
del Nord che a quelli del Sud, o comunque che non si adatti a tutti egualmente.
Ad alcuni, sembra di leggere tra le righe, si può adattare meglio un dispotismo illuminato, cioè, in fondo, un governo dei tecnici che può in prospettiva diventare un governo di esperti confermati per plebiscito, purché non scelti nella lotta dei partiti, attori di un’opinione politica non saggia, di un mercato elettorale confuso, incerto, poco coraggioso e molto propenso a portare acqua al proprio mulino. La democrazia dei confermati per plebiscito può diventare la forma moderna del dispotismo illuminato. Ed è una tentazione che sembra catturare l’attenzione di molti, Oltralpe e, purtroppo, anche nel Paese. Un pericolo da sfuggire a tutti i costi. Un pensiero nefasto che dà alla politica un’ulteriore responsabilità perché solo ad essa spetta la determinazione a volerlo ribaltare.
La Repubblica 28.08.12