La chiusura ventilata della Carbosulcis avrà forse delle ragioni economiche, ma per diversi aspetti ha un forte contenuto politico, e un non meno rilevante potenziale di innovazione del modello industriale. Se le ragioni economiche finissero per prevalere sulle altre, come rischiano di prevalere, sempre in Sardegna, nei casi dell’Alcoa, dell’Euroallumina, della Portovesme, le relazioni industriali in Italia farebbero un altro passo all’indietro, e le spinte a innovare qui e ora un modello industriale superato subirebbero un lungo rinvio.
Il contenuto politico deriva dal fatto che si tratta di minatori. La memoria non può non andare al durissimo attacco che venne sferrato dal governo Thatcher nel 1984-85 contro il sindacato nazionale dei minatori, il più forte del Paese. Ben più che ridurre i costi dell’industria mineraria o avviarla a qualche tipo di conversione, esso aveva lo scopo manifesto di spezzare le reni all’intero movimento sindacale. L’operazione ebbe successo. I sindacati britannici non si sono mai più ripresi da quella sconfitta. Inflitta loro dal governo a carissimo prezzo per l’intero Paese. Tra perdite di produzione, riduzione degli introiti fiscali e sussidi che si dovettero pagare per un lungo periodo, la vittoria della signora Thatcher costò al Regno Unito circa 36 miliardi di sterline di allora, più di tre punti di Pil.
La Carbosulcis è ben più piccola dell’industria mineraria britannica di quei tempi, ma il nodo di fondo rimane. Si tratta di decidere se il primo obbiettivo da conseguire è ridurre alla sottomissione i diretti interessati, e con essi il numero assai maggiore di lavoratori che sono costretti a dirsi “se non accetto tutto ciò che mi chiedono domani toccherà a me”, oppure di convenire che i lavoratori hanno delle buone ragioni per opporsi alla chiusura. Al tempo stesso si tratta pure di decidere se una differenza del rendimento economico rilevabile tra un sito produttivo locale e un sito analogo che risiede chissà dove, giustifica la decisione di togliere il lavoro a qualche centinaio o migliaio di persone. Differenza di rendimento comparato, si noti, non di produzione in perdita: è la stessa situazione dell’Alcoa. I lavoratori italiani hanno pagato e stanno pagando un prezzo durissimo alla crisi, di cui peraltro non portano alcuna responsabilità, anche se qualcuno ha il coraggio di dirgli che hanno vissuto al disopra dei loro mezzi. I quattro milioni effettivi di disoccupati, il miliardo di ore di cassa integrazione previste per il 2014, i quattro milioni di precari, dovrebbero essere uno scenario sufficiente per stabilire che nessuna impresa piccola o grande dovrebbe chiudere, licenziando, ma va guidata e sorretta affinché trovi il modo di far transitare i lavoratori ad altre occupazioni.
Regione e governo sono quindi dinanzi alla sfida di non smantellare un altro pezzo del tessuto produttivo, del sistema occupazionale e delle relazioni industriali in Italia, dopo il degrado che essi hanno subito negli ultimi anni e mesi. C’è di più. Nel quadro deprimente che appare disegnato non soltanto dalla crisi, ma anche dalle politiche che ogni giorno vengono prospettate per superarla, la modernità appare stare proprio dalla parte dei minatori sardi. Non chiedono di continuare a estrarre carbone. Chiedono di convertire la miniera in un contenitore di anidride carbonica, quella che avvelena i nostri cieli e le nostre città. Sarebbe un passo significativo verso un modello produttivo che non si proponga di tornare presto a produrre esattamente quel che si produceva prima, in quantità ancora maggiori – una ricetta sicura per accelerare il disastro non solo ambientale ma pure economico e sociale che ci attende. Al contrario rientra in una idea di produrre condizioni e servizi e ambienti che migliorino la qualità della vita. Saremmo sconfitti tutti noi, cioè l’intero Paese, se ancora una volta vincesse lo spirito conservatore e revanscista che contraddistinse il governo britannico un quarto di secolo addietro.
La Repubblica 28.08.12