Ancora un anno fa, vennero raccolte oltre un milione di firme per abrogare il Porcellum. Inutilizzate, perché la Corte costituzionale dichiarò il referendum inammissibile. Da allora, il dibattito non si è fermato un secondo. Spinto dalle ripetute esortazioni del presidente della Repubblica Napolitano. Sin qui, senza esiti. Nonostante si sia, ormai, al limite dei tempi consentiti per votare con una nuova legge. Peraltro, non è facile capire di cosa si discuta. Perché i margini di incertezza, intorno al progetto, sono ancora ampi. Visto che si parla di un premio di maggioranza, ma non si sa se attribuirlo alla coalizione o al partito che ottiene più voti. E non è chiaro come ripartire i seggi: in base a collegi uninominali oppure mediante il ritorno al proporzionale e alle preferenze. Oppure, ancora, attraverso collegi uninominali proporzionali. Combinando le preferenze con un listino a candidature “bloccate”. Insomma, si arriverà a un nuovo sistema elettorale. Forse. I cui risultati non sono prevedibili. Da nessuno. Neppure dai negoziatori e dalle forze politiche che essi rappresentano. Una riforma elettorale “preterintenzionale”, come altre. Approvata contando sull’incomprensione e sul disinteresse dei cittadini. La cui attenzione è assorbita da problemi diversi, ben più urgenti. Il lavoro, il reddito, le pensioni, i risparmi, il fisco, i servizi… Tuttavia, l’importanza della legge elettorale è fondamentale. Soprattutto per i cittadini. Perché riguarda il fondamento, non unico, non sufficiente, ma comunque necessario, della democrazia rappresentativa. Il voto. Anello di congiunzione fra elettori, partiti, Parlamento e governo. Attraverso il voto, nonostante l’autonomia relativa degli eletti, i cittadini possono sentirsi – o almeno “immaginare” di essere – coinvolti nella scelta di chi guida e gestisce lo Stato e le istituzioni.
Il sistema elettorale è, peraltro, un meccanismo chiave nel controllo e nella riproduzione del potere. A ogni livello. Modificare le regole e i criteri delle elezioni contribuisce, infatti, a orientare oppure a modificare i risultati e gli esiti. Com’è avvenuto nell’autunno 2005, quando la maggioranza di centrodestra – allargata, allora, all’Udc introdusse il Porcellum. In fretta. Sulla base di una semplice valutazione: con il precedente sistema elettorale l’Unione di centrosinistra, guidata da Prodi, appariva destinata a una larga vittoria. Perché i sondaggi la vedevano largamente in vantaggio nella competizione maggioritaria, con cui si eleggevano i tre quarti dei candidati, in collegi uninominali. Il Porcellum azzerò questo procedimento. Lo sostituì con un sistema proporzionale che attribuisce la maggioranza assoluta dei seggi alla coalizione vincente. In questo modo, i partiti sono indotti – meglio: costretti – a coalizzarsi “prima” del voto. Mentre le segreterie nazionali dei partiti hanno acquisito grande potere nella scelta dei candidati e, quindi, degli eletti. Visto che l’elezione avviene in base a liste bloccate e senza preferenze.
Il voto. Il legame più diretto fra cittadini e governo, fra elettori e partiti, nelle democrazie rappresentative. Per questo è sempre stato difficile riformare le leggi elettorali senza spargimento di sangue e senza colpi di mano. Non è un caso che la “fine” della Prima Repubblica coincida non con Tangentopoli, nel 1992, ma con il referendum elettorale del 1991, promosso, fra gli altri, da Mario Segni e dai Radicali. Avversato da molti leader politici, per primo Bettino Craxi, che invitò gli elettori ad “andare al mare”. Inutilmente. Anzi, l’esortazione fornì agli elettori una “buona ragione” in più per votare. Contro i partiti. È interessante rammentare come quel referendum prevedesse di ridurre a una sola le preferenze nell’elezione della Camera dei deputati. Perché allora le preferenze costituivano uno strumento – e un simbolo – del controllo dei partiti sulla società. Soprattutto, ma non solo, nel Mezzogiorno. Il che, a distanza di tempo, può apparire curioso. Visto che oggi si parla di reintrodurre le preferenze per ragioni inverse. Cioè, proprio per restituire agli elettori un maggior controllo sui partiti. Una maggiore possibilità di scelta dei rappresentanti. Oltre che per ricostruire il rapporto fra gli eletti e il territorio.
Ciò sottolinea come le tecniche e le norme elettorali siano importanti, ma non sufficienti a garantire la qualità della democrazia. E il funzionamento della rappresentanza. Come, inoltre, possano produrre effetti diversi, in tempi e contesti diversi. Un’avvertenza che oggi appare utile almeno quanto vent’anni fa. Perché, quanto e forse più di allora, è in crisi il rapporto fra cittadini, partiti e Parlamento. Rammentiamo: la quota di persone che esprime Molta o Abbastanza fiducia verso i partiti è inferiore al 5%. Nei confronti del Parlamento sale (si fa per dire) al 9% (Demos-la Repubblica, “Gli Italiani e lo Stato”, dicembre 2011). In altri termini, circa nove italiani su dieci non hanno fiducia negli attori principali e nel luogo emblematico della democrazia rappresentativa. Cioè: non hanno fiducia nella democrazia rappresentativa, che si è tradotta in “democrazia del pubblico”, negli ultimi vent’anni. Favorita dalla mediazione dei media e della televisione, dalla personalizzazione dei partiti e dai partiti personali. Dalla surrogazione e, in parte, dalla sostituzione delle elezioni con i sondaggi. Un plebiscito che si rinnova ogni giorno.
Questi metodi, imposti da Berlusconi con la complicità degli altri attori politici (anche di centrosinistra), hanno logorato la legittimazione dei principali soggetti politici. Fino a disegnare una scena dove campeggiano leader “non eletti”, sfidati da attori (non solo) politici che usano nuovi canali (new media). In nome della democrazia diretta. E in alternativa alla democrazia rappresentativa e ai suoi soggetti.
Per questo sarebbe utile che la nuova legge elettorale venisse discussa e scritta non tanto – non solo – in base agli interessi di partiti e partigiani, preoccupati di riprodurre il proprio potere e la propria rendita di posizione. Ma avendo ben chiaro che è in gioco il fondamento normativo (e di valore) della “democrazia rappresentativa”. Una questione critica e altamente rischiosa per tutti. Perché mai come oggi la democrazia rappresentativa è sembrata parola tanto svuotata di senso. E le sue istituzioni, i suoi attori: tanto svuotati.
La Repubblica 27.08.12