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"La scuola, il merito e gli errori da evitare", di Miguel Gotor

Il Governo ha deciso di reintrodurre il concorso per scegliere i nuovi insegnanti. Una buona notizia che giunge tredici anni dopo l’ultimo esame di Stato, celebrato nel 1999. In tale lasso di tempo si è consumata una triste stagione per la scuola italiana, in cui si sono avvicendate una serie contraddittoria di modalità di selezione, dalle Ssis, alle lauree abilitanti, al Tfa, rivelatesi insufficienti e parziali. Una vera e propria ipertrofia formativa, su cui si è sadicamente esercitato il pedagogismo più deteriore, che ha caricato l’università italiana di compiti professionalizzanti difficilmente sostenibili.
In questi anni si sono nevroticamente attivati due dispositivi retorici. Il primo ha riguardato l’abuso di nobili concetti come riforma e riformismo, i quali hanno perduto il loro valore positivo perché sono serviti in realtà a ridurre le opportunità di lavoro, che si è sempre più precarizzato e dequalificato, e a tagliare le risorse in favore della scuola pubblica, già storicamente inferiori alla media europea.
Il secondo ha interessato l’ideologia del merito che accompagna da sempre la propaganda di ogni processo di selezione dai tempi del ministro Falcucci in poi e sulla quale troppo indulgono anche gli attuali governanti, che pure dovrebbero essere esenti dalle smanie del facile consenso. Purtroppo la demagogia sui «professori fannulloni» sta al politico populista di brunettiana memoria come quella sulla meritocrazia rischia di stare al tecnocrate di oggidì: sembrano l’opposto, ma sono le due facce della stessa medaglia.
Sarebbe già sufficiente che la scelta di ritornare al concorso non portasse a ripetere gli stessi errori del passato, quelli che hanno caratterizzato il famoso “concorsone” del 1999, a cui ho avuto l’avventura di partecipare. Ricordo quell’esperienza come una tra le più frustranti della mia vita: il numero abnorme di candidati (oltre un milione e mezzo) che trasformò un esame di Stato in una lotteria strapaesana, la presenza di commissioni giudicanti per lo più demotivate, un senso generale di arbitrarietà e di squallore. Per rendere rigorosa questa nuova selezione bisognerebbe prendere piccoli, ma concreti accorgimenti che un governo di professori come questo dovrebbe conoscere bene.
Il primo, quello del test di ingresso per scremare la pletora di partecipanti e verificare la conoscenza di alcune nozioni di base, è già stato scelto ed è molto importante.
Il secondo dovrebbe indurre a formare commissioni il più possibile qualificate. Uno dei modi per farlo è decidere di retribuire i singoli membri in modo dignitoso e di prevedere il distacco, almeno del preside della commissione, per i mesi in cui è impegnato nell’attività di concorso. Ciò non avvenne nel 1999 a detrimento del livello complessivo dei collegi giudicanti.
Il terzo potrebbe favorire l’accesso in ruolo di quei candidati che abbiano già conseguito il titolo di dottore di ricerca. Essi sono stati giudicati, sia all’ingresso che all’uscita, da commissioni di professori universitari scelte a livello nazionale. Sono figure di studiosi su cui si è investito del denaro pubblico che vengono all’improvviso abbandonate a se stesse e sono costrette a emigrare all’estero. Là si fanno strada, a riprova che il sistema formativo italiano non deve essere proprio malaccio come si dice, ma difetta di risorse e di opportunità.
Bisognerà, infine, trovare il modo per tutelare quei docenti precari, inseriti nelle graduatorie, i quali in questo decennio di far west normativo hanno accumulato esperienze didattiche preziose e ora rischiano di essere scavalcati dai vincitori del nuovo concorso, che produrrà nuove graduatorie perpetuando un meccanismo che deve essere bloccato.
In realtà, chi conosce la scuola italiana sa che in questi anni è stato uno straordinario bacino di resistenza silenziosa. Nonostante la perdita di prestigio sociale degli insegnanti, gli stipendi troppo modesti e l’iper-burocratizzazione della professione, il sistema didattico ha dovuto supplire a tante carenze civili, politiche e culturali, fra tutte, la crisi di ruolo dell’istituto famigliare. Dopo la selezione di questi nuovi ingressi, il mondo della scuola meriterebbe un periodo di serietà, di investimenti straordinari e di stabilità nei processi decisionali, anche perché già da tempo è coinvolto in una battaglia decisiva per il nostro futuro, quella che riguarda l’integrazione dei nuovi italiani.
Le lamentele contro la nostra scuola sono nate con essa. È sufficiente leggere La scuola e la questione sociale di Pasquale Villari del 1872 per vederle tutte riassunte, fra cui il sempiterno dibattito tra l’efficienza dell’educazione tecnica e l’astrattezza dei saperi umanistici, come se leggessimo una polemica di oggi. Sorprende un argomento fra tutti: il nostro limite è quello di una nazione che “vuol riformare prima di riflettere, e vuol legiferare a vapore […] e ci pare di aver già progredito, quando copiamo sulla carta le leggi dei popoli che sono più innanzi di noi, e di avere le scuole tedesche, quando ne abbiamo adottato i programmi”.
Centoquarant’anni dopo sarebbe bene non continuare a ripetere gli stessi errori. Più modestamente, ma anche con maggiore concretezza, sarebbe già un successo “tecnico” evitare di celebrare l’ennesimo “concorsone” e riuscire a garantire un esame serio, con procedure credibili ed esaminatori motivati, nella consapevolezza che dal destino della scuola dipende la qualità del futuro di una nazione.

La repubblica 27.08.12

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