Serve «più Stato nel mercato» per uscire dalla crisi economica come titolava l’Unità qualche giorno fa? Proviamo ad affrontare la questione in modo concreto senza cadere nell’indeterminatezza. Altrimenti si rischia di trasformare un punto programmatico qualificante di una sinistra di governo in un auspicio che è buono solo per la campagna elettorale. Dopo anni in cui si è sostenuto che un dimagrimento del pubblico sarebbe stato un bene di per sé, sarebbe assurdo non riconoscere che si esce dalla crisi anche ridiscutendo il confine tra Stato e mercato. Andiamo per ordine. In primo luogo, siamo davvero sicuri che la crisi segni la fine del liberismo? Ammesso che si possa parlare di pensiero unico liberista, è difficile credere che la parte meno ideologica del suo messaggio non sia più attuale. La crisi porterà a ripensare la regolazione del sistema finanziario ma non si tornerà indietro dalla liberalizzazione dei mercati e dalla concorrenza come cardine del funzionamento dell’economia, anche l’intervento del pubblico alle stesse condizioni del privato non sembra essere in discussione. Sulle privatizzazioni in Italia, occorre fare un po’ di chiarezza. È fastidioso il ritornello secondo cui si sarebbe svenduta l’industria di Stato sotto la pressione di una lobby finanziaria. Nel ’92 le aziende di Stato non stavano in piedi e sono state vendute a valori che rispecchiavano la gestione dell’epoca. Il privato ha fatto di meglio e oggi valgono di più, questo non ci autorizza a dire che le abbiamo svendute. Ci si scorda poi che le privatizzazioni hanno permesso il risanamento delle aziende. Due sono gli elementi critici di questa esperienza. Gli imprenditori privati hanno sfruttato le imprese (e le loro rendite) senza fare adeguati investimenti; le privatizzazioni non hanno permesso il consolidamento del sistema finanziario privato: né salotti buoni, né azionariato popolare. I campioni nazionali sorti dalle privatizzazioni si contano sulle dita di una mano e molte imprese sono finite in mani straniere. Questo fa sorgere il dubbio che la classe imprenditoriale non sia stata all’altezza del compito e ciò potrebbe spingerci a riabbracciare lo Stato imprenditore. Ma sarebbe una scelta felice? No, dobbiamo piuttosto far funzionare meglio il sistema finanziario, far crescere la cultura imprenditoriale nel Paese e ripensare il ruolo del pubblico laddove il privato non arriva. Quanto hanno contribuito le privatizzazioni e le liberalizzazioni al declino dell’Italia negli ultimi venti anni? Sicuramente più in positivo che in negativo, si pensi solo allo sviluppo di due settori come le telecomunicazioni e l’energia. Le difficoltà derivano piuttosto dal fatto che il privato non ha agito su alcuni ingranaggi chiave per lo sviluppo dell’economia (ricerca, formazione capitale umano, infrastrutture, finanza) e non è entrato in alcuni settori a rapida crescita (nuove tecnologie, energie rinnovabili). Cosa può fare il pubblico per porvi rimedio? Molto, tramite una pluralità di strumenti. Ecco alcune possibilità: 1. Creare, come si sta facendo, una holding pubblica delle infrastrutture incentrata su Cassa depositi e prestiti. 2. Favorire lo sviluppo di una finanza per l’economia reale, mettere ordine nel sistema di garanzie pubbliche alle imprese, far funzionare i fondi di private equity promossi dal pubblico. 3. C’è spazio per una politica industriale? Sì, ma occorre essere cauti, non basta definire dei meccanismi di incentivo per raggiungere l’obiettivo. L’efficacia delle forme di incentivo deve essere attentamente valutata altrimenti si rischia di pagare con soldi pubblici investimenti sbagliati o che il privato già intenderebbe fare. 4. Può il pubblico entrare nel manifatturiero? Sì, ma non può essere un modo per salvare le aziende in crisi. Se lo Stato vuole essere imprenditore, deve seguire il modello Eni ed Enel: società quotate che rispondono al mercato. Siamo sicuri che di fronte alla crisi della siderurgia, un intervento dello Stato sotto questa forma potrebbe funzionare? 5. Deve infine fare qualcosa di molto semplice: il suo mestiere. Non è solo questione di burocrazia da ridurre, negli ultimi venti anni si è indebolita in modo significativo la capacità di governo del pubblico. A differenza di quanto pensano molti economisti che ragionano secondo categorie ben lontane dalla realtà, ci sarà sempre spazio per lo Stato nell’economia. Si tratta però di uno spazio che va costruito con cura ricordando anche che oggi i vincoli (bilancio, normativa Ue, mercati finanziari) sono ben più stringenti di quelli dell’epoca che ha visto la nascita dell’Iri.
L’Unità 26.08.12