Amicizie consolidate e antiche che si incrinano. Alleanze che d’improvviso si sfaldano. Partiti-non-partiti che si spaccano a metà come fossero mele e tutt’intorno, mentre le polemiche alimentano i veleni e arroventano i rancori, si ammucchiano le macerie fumanti di uno scontro interno al centrosinistra e del tutto inedito per temi e per protagonisti.
L’intensità autolesionistica ricorda quella che, nella primavera del 2008, portò alle dimissioni di Romano Prodi, lesionando seriamente la credibilità di quell’alleanza di governo. Oggi (e per il momento) non ci sono esecutivi che rischiano la crisi: ma non per questo la vicenda è meno clamorosa.
E la vicenda, naturalmente, è quella che vede contrapposti – a partire dallo scontro in atto tra la Procura di Palermo e il Quirinale – pezzi di sinistra, di magistratura, di intellettualità e perfino di carta stampata. Stare con Napolitano o con i pm che indagano sulla presunta trattativa tra Stato e mafia? Firmare l’appello de «Il Fatto quotidiano» a sostegno dei magistrati siciliani o schierarsi con il Quirinale, che ha chiesto alla Corte Costituzionale di stabilire il destino di certe discusse intercettazioni (quelle tra il Presidente della Repubblica e l’ex ministro Mancino)?
Lo scontro è senza quartiere. E ieri, mentre il centrodestra stava ancora fregandosi le mani, ecco l’ultimo capitolo: in campo, infatti, è sceso anche Valerio Onida – ex presidente della Corte Costituzionale e membro del Consiglio di presidenza di «Libertà e giustizia» – per contestare le tesi sostenute qualche giorno prima da Gustavo Zagrebelsky, suo predecessore alla guida della Corte e presidente onorario di «Libertà e Giustizia». Onida si è schierato decisamente con il Quirinale (a differenza di Zagrebelsky). Di più: è arrivato a sostenere l’illegittimità dell’indagine dei giudici di Palermo: «Mi sembra – ha spiegato a “l’Unità” – che sia di competenza del Tribunale dei ministri, non della Procura. E non lo dico io, lo dice la Costituzione».
E’ l’ultima clamorosa spaccatura: «Ma noi non siamo un partito: ci si confronta liberamente, e che la si pensi in maniera diversa non mi pare onestamente un caso», dice Sandra Bonsanti, presidente di «Libertà e Giustizia». Nemmeno «la Repubblica» è un partito – nonostante lo si definisca da sempre giornale-partito (e conti di certo assai più di un partito) – ma anche lì sono volati gli stracci, con Eugenio Scalfari accorso in difesa di Napolitano pesantemente criticato, due giorni prima e proprio su «la Repubblica», da Gustavo Zagrebelsky. Nemmeno il partito dei giudici è un partito: eppure anche tra le toghe divampa uno scontro furioso che contrappone correnti interne, personalità e magistrati di primissimo piano.
E’ un intero mondo – fino a ieri legato da un comune sentire – a liquefarsi nell’afa di un agosto terribile. Sconcerta che il campo di battaglia sia la giustizia, e sorprendono le accuse che rimbalzano tra i due fronti: presunti «giustizialisti» contro ipotetici «affossatori della verità». E cosa ci sia dietro – cosa potrebbe esserci dietro – alla fine lo ha denunciato senza mezzi termini Luciano Violante (pure considerato tra i padri fondatori del partito dei giudici: paradosso dei paradossi). «Vedo in corso un attacco politico al ruolo del Quirinale e al governo… C’è un blocco che fa capo a “Il Fatto”, a Grillo e a Di Pietro che sta reindirizzando il reinsorgente populismo italiano… Il “populismo giuridico” utilizza le Procure come clava politica».
Vera o traballante che sia la tesi dell’ex presidente della Camera (ed ex magistrato), il livello del punto cui è precipitato lo scontro lo si coglie bene nella replica che arriva dall’Italia dei valori: «Violante continua a farneticare di un progetto comune tra magistratura, politica e informazione per abbattere Napolitano e Monti. In realtà, lui è un uomo al servizio dei poteri forti e solleva polveroni… Con le sue dichiarazioni dimostra un’imbarazzante sintonia con Cicchitto… sono fatti l’uno per l’altro».
Chi fosse stato lontano dall’Italia nelle ultime settimane, non potrebbe che rimanere strabiliato di fronte a tutto questo. Quando aveva lasciato il Paese, «giustizialista» era l’accusa tradizionale che la destra rivolgeva al centrosinistra: e non la spada impugnata da un pezzo di sinistra contro un altro pezzo fino a ieri alleato; Di Pietro e Bersani apparivano ancora sorridenti nella foto di Vasto; «Libertà e Giustizia» non si divideva, il partito di «Repubblica» non si spaccava e, soprattutto, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di contestare al Capo dello Stato l’intenzione di occultare la verità sulla presunta trattativa tra Stato e mafia.
E’ vero, la politica italiana (ed i rapporti tra la politica e la magistratura…) regala di sovente sorprese: ma ad un terremoto di tali dimensioni – e su un simile terreno – forse nessuno era preparato. L’origine, naturalmente, sarebbe tutta politica: e cioè la nuova collocazione di Antonio Di Pietro fuori dal centrosinistra, in aperta concorrenza col Pd e in gara con Beppe Grillo e la Lega per la conquista di consensi «radicali» e di voti da recuperare nell’enorme bacino dell’astensione e dell’antipolitica. Da qui, secondo molti, la decisione di tracciare una riga: immaginaria, certo, ma invalicabile e insidiosa. O di qua o di là: di qua dovrebbe voler dire stare con i magistrati di Palermo, di là con Napolitano, Monti e i partiti che lo sostengono.
Sullo sfondo – sia detto senza retorica – si stagliano i problemi del Paese: quasi sfocati rispetto alla questione in primo piano, che è di nuovo – e come sempre da vent’anni a questa parte – la giustizia. La novità è che, fino a ieri, oggetto degli strali «giustizialisti» era Silvio Berlusconi, non Napolitano… Così, il Cavaliere tira un sospiro di sollievo e ringrazia: e si gode, soprattutto, quella che i suoi definiscono una «rivincita postuma». In fondo, il suo cavallo di battaglia è sempre stato lo stesso: in Italia la giustizia non funziona. Sentirlo dire oggi alla sinistra, è musica fantastica per le sue orecchie…
da www.lastampa.it