È interessante la relazione di Stefano Zamagni pubblicata su l’Unità, nella quale si sottolinea come la «mediazione» di De Gasperi sia stata alla base del grande sviluppo del Paese. Tanto più colpisce se si pensa alla situazione attuale dell’Italia. Basta guardare alla virulenza con cui è riesplosa in questi giorni la polemica tra politica e magistratura in seguito al conflitto di attribuzione sollevato di fronte alla Corte Costituzionale dal Presidente della Repubblica contro la Procura di Palermo. A Est e a Ovest, ogni parola una fucilata. Non voglio, però, entrare nel merito di questa grave questione ma porre un problema.
Se si volesse individuare un elemento importante della crisi attuale della democrazia italiana si dovrebbe, infatti, parlare anche della decadenza della «mediazione». E quando uso questo termine non mi riferisco a una tecnica della discussione o a uno strumento di tipo strettamente politico, ma a una concezione generale, a un modo di considerare la realtà – compresa la politica – e di intervenire in essa. In modo esplicito o implicito, diretto o indiretto, la mediazione è stata uno dei principi fondamentali che hanno presieduto alla vita della prima Repubblica; mentre nella seconda, soprattuto nella fase della sua decomposizione, sono prevalsi in genere atteggiamenti – e un lessico- che in senso generale si possono definire di tipo «estremistico». Ora, la domanda principale da porsi è questa: perché è tramontata la cultura della mediazione e perché nella seconda Repubblica si è affermata una ideologia «estremistica», fino a trionfare nella fase della sua decomposizione?
In prima approssimazione si può dire che essa è tramontata con la crisi delle culture dell’antifascismo e la fine della politica di massa e dei partiti che hanno strutturato la vita della prima Repubblica. A questi partiti era infatti organico il principio della mediazione per una serie di motivi: erano interclassisti con una forte consapevolezza dell’«intero», ma con una altrettanto vigorosa attenzione per le «parti» e per la loro specifica autonomia. In questo senso erano partiti naturaliter statali, attenti alla complessità e alle dinamiche della società civile (e questo riguardava,sia pure in forme diverse, sia quelli di matrice cattolica che quelli di matrice marxista). Erano poi partiti imperniati nella tradizione dell’antifascismo, e quindi con una forte considerazione per il bene comune, per l’interesse generale e anche per l’etica pubblica. In questo contesto la mediazione operava in due sensi: come strumento di articolazione dell’«intero» e come condizione della sua apertura verso orizzonti più larghi e condivisi.
Naturalmente sto parlando dell’epoca aurea di questi partiti, prima dei processi di corruzione e disgregazione che portarono alla seconda Repubblica, quando questo impianto saltò completamente ed il principio della mediazione venne prima contestato in modo frontale, poi ridotto a una caricatura di se stesso. Non intendo però soffermarmi né sulle ragioni di questa degenerazione né sulla fenomenologia, ben nota, di questo ribaltamento. Mi interessa guardare al futuro, non al passato. Quelle che, nel periodo berlusconiano, entrano in profonda crisi insieme al principio della mediazione, sono le forme della rappresentanza e della partecipazione democratica, a tutti i livelli. Il Parlamento viene ridotto a una cassa di risonanza del potere esecutivo, mentre il potere giudiziario, sottoposto a una delegittimazione quotidiana, si difende con tutte la sue forze ingaggiando una dura battaglia. I partiti diventano strumenti in mano ai singoli leader, con l’eccezione del Pd che si sforza di ristabilire un rapporto con il proprio elettorato attraverso lo strumento delle primarie, ricorrendo cioè alla democrazia diretta. Risorsa importante, certo, ma non tale, almeno a mio giudizio, da riuscire da sola a contrastare la crisi della nostra democrazia che oggi è drammatica.
Quello che oggi abbiamo di fronte è infatti un terreno pieno di macerie, nel quale la rappresentanza democratica appare, per molti aspetti, disgregata e frantumata. È questo il punto che mi interessa mettere a fuoco: si tratta, infatti, di un fenomeno assai vasto che si è manifestato, in tutta la sua portata, nella fase terminale della seconda Repubblica attraverso un processo di «feudalizzazione» del potere in molti gangli della società italiana. Mentre i partiti e la politica attraversavano una fase di profonda difficoltà – resa poi evidente dall’avvento del governo tecnico (del tutto estraneo, sia detto tra parentesi, alla cultura della mediazione) – nel Paese si è formata una serie di nuovi centri di potere grandi e piccoli che, muovendosi nelle macerie della rappresentanza democratica, procedono in modo autonomo seguendo proprie logiche e propri obiettivi ed usando comportamenti e lessici coerenti e funzionali alle loro strategie.
In questa situazione di crisi e di decadenza risaltano con evidenza i compiti che le forze democratiche hanno oggi di fronte, dopo l’incendio appiccato da Berlusconi e alimentato dai suoi vari «epigoni»: ristabilire le fondamenta della democrazia rappresentativa, ridare credibilità e legittimità al Parlamento anche come luogo di formazione delle élite, ricostituire l’equilibrio dei poteri, dar vita a un governo politico chiudendo la stagione dei tecnici e ripensare, anche, in una nuova prospettiva i rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Nel nostro Paese, bisogna prenderne atto, si è riaperto in forme drammatiche il problema della «sovranità», e nel pieno di una crisi internazionale che mette in questione la stessa esistenza dell’Europa, di cui l’Italia è stata, e deve essere, un perno costitutivo. Lo ribadisco perché questo è il problema di fondo da risolvere se si vuole uscire dalla crisi e evitare la decadenza: un compito immenso.
Ma accanto a questi, se si vuole sconfiggere l’ideologia «estremistica», occorre lavorare per ristabilire un altro principio anch’esso travolto dal berlusconismo, a prima vista meno significativo ma decisivo invece se si vuole avviare una nuova fase della Repubblica: il reciproco riconoscimento degli interlocutori, delle loro posizioni, anche dei loro «principi» (quando ci siano, naturalmente, il che non è scontato). Ed è in questo quadro che torna a risaltare la funzione, e il significato, della mediazione. Intendiamoci: mediazione non come rispecchiamento della situazione, né come acquiescenza allo stato di fatto. Ma come capacità di stabilire un punto di equilibrio dinamico tra esigenze e posizioni contrastanti, a volte in modo radicale, producendo una nuova situazione nella quale esse possano essere riconosciute e anche potenziate nella loro specificità e, al tempo stesso, configurarsi come momento di un nuovo più avanzato e condiviso punto di vista. Mediazione, in breve, come strumento per mettere in relazione «opposti» che sembrano irriducibili e incompatibili. E a questo proposito conviene sgombrare il campo da un equivoco concernente il bipolarismo: come non c’è rapporto tra estremismo e bipolarismo, così non c’è contrasto fra mediazione e bipolarismo. Ne abbiamo una verifica precisa sotto gli occhi: il bipolarismo della seconda Repubblica è stato, in effetti, una forma di trasformismo; mentre la mediazione è il contrario del trasformismo perché presuppone il riconoscimento dell’altro nella sua determinazione e specificità per potersi realizzare. Mediazione, dunque, in senso classico: del resto, a che servono i classici se non a farci mettere meglio a fuoco le strutture profonde del nostro tempo e i compiti che abbiamo di fronte?
L’Unità 21.08.12