Le sempre più frequenti ed intemperanti dichiarazioni riguardo alla possibilità che l’Euro perda dei pezzi, a partire dalla Grecia, suggeriscono che in questa fase i Paesi del Nord Europa stiano in qualche modo valutando l’opportunità e i costi di procedere da soli. All’ipotesi che il consolidamento fiscale del Sud possa essere controllato e guidato con successo per mezzo di un accordo (il fiscal compact) che implichi un passaggio di sovranità in materia di politiche fiscali, non crede ormai quasi più nessuno: anche le cicale sono gelose della propria sovranità
Vediamo quindi come appaiono, a noi ma anche ai tedeschi, le prospettive di consolidamento fiscale a medio termine, diciamo a 5-10 anni, dell’Italia. In questa prospettiva, il Paese ha due problemi fondamentali: non cresce e ha una struttura politico- istituzionale che si configura come una macchina per la produzione di spesa pubblica. Se è vero che crescere è di fatto condizione necessaria per rientrare dal debito, è anche vero che non è affatto sufficiente. Il Paese ha goduto di una crescita anche sostenuta in passato, ma la sua spesa pubblica è sempre cresciuta ad un ritmo ancor più elevato del reddito, accumulando così debito. Anche nel corso dell’ultimo decennio, quando l’Euro ci ha permesso un sostanziale risparmio nel servizio del debito, il paese ha destinato questo risparmio a nuova spesa, così che il rapporto debito-pil è rimasto essenzialmente invariato.
Per quanto quindi tornare a crescere richieda riforme profonde di liberalizzazione dei mercati e dei servizi pubblici che il Paese appare refrattario ad intraprendere, è forse ancor più urgente chiedersi come sia possibile intervenire su quei meccanismi della struttura istituzionale che storicamente hanno prodotto in modo sistematico spesa pubblica a fronte di crescita economica e/o di nuove entrate fiscali. Alcuni di questi meccanismi istituzionali sono evidenti: la moltiplicazione incontrollata dei centri di spesa locale, la struttura salariale dell’amministrazione pubblica, di fatto indipendente dalla produttività, la dimensione eccessiva del settore pubblico e del settore privato che al pubblico è legato da dipendenza istituzionale, come gran parte del settore bancario, molte imprese di servizi (locali e no) privatizzate solo sulla carta, ed anche quei settori industriali che sopravvivono grazie a commesse e sussidi pubblici.
A ben vedere, alla base di questi meccanismi istituzionali vi è la dispersione del potere politico ad ogni livello della struttura economica del Paese e le conseguenti politiche clientelari connaturate al controllo politico dell’attività economica. A costo di annoiare il lettore con un tono eccessivamente didascalico, voglio rimarcare che il consolidamento fiscale è possibile solo operando sui meccanismi istituzionali stessi; agire sugli effetti di bilancio di tali meccanismi non è sufficiente.
Solo rompendo questi meccanismi possiamo sperare di evitare che nuova spesa pubblica occupi a medio termine gli spazi di bilancio liberati da una contingente politica del rigore o anche dalla pioggia di Eurobonds e di liquidità salvastati (che non verrà).
Provo a spiegarmi con degli esempi scelti tra quelli assurti alla cronaca di recente. Il caso della Regione Sicilia è un buon esempio. Operare affinché il prossimo presidente della Regione sia un abile e onesto amministratore della cosa pubblica ha effetti limitati se non si agisce sull’Autonomia, il meccanismo istituzionale che permette alla Regione Sicilia un largo controllo della spesa senza che i cittadini siano chiamati a risponderne fiscalmente. Questo naturalmente non vale solo per la Sicilia (che è però caso eclatante), né solo per tutte le regioni autonome, ma bensì per tutti i centri di spesa locale non soggetti alla responsabilità della raccolta. Un altro buon esempio è la questione delle partecipazioni pubbliche in imprese definite strategiche. Garantire la scelta oggi di amministratori seri e preparati per queste imprese, lasciando però la responsabilità istituzionale di controllo al Tesoro, non elimina gli enormi incentivi che hanno portato in passato e ancora porteranno in futuro alla lottizzazione politica dell’impresa pubblica, con risultati devastanti sul bilancio. Trucchi amministrativi e contabili che permettano al settore pubblico di mantenere anche indirettamente il controllo di imprese privatizzate vanno nella stessa direzione, con l’aggravante della mancanza di trasparenza. Questo è stato il caso della riforma bancaria con la creazione delle Fondazioni. Questo è oggi il caso con i vari paventati trasferimenti di patrimonio pubblico alla Cassa Depositi e Prestiti. È necessario che il Paese si risolva a ridefinire e a salvaguardare altrimenti i propri interessi strategici.
Più in generale, la stessa analisi implica che operazioni di rigore di bilancio contingenti e di emergenza, come ad esempio un aumento condizionale dell’Iva, un rinnovato sforzo contro l’evasione, un condono, una patrimoniale, o un temporaneo blocco delle assunzioni pubbliche, sono destinate ad essere prontamente vanificate senza interventi sui meccanismi istituzionali di raccolta e di spesa. Lo sappiamo noi come lo sanno i tedeschi.
La Repubblica 20.08.12