Il 14 agosto l’Università Jiao Tong di Shanghai ha pubblicato la sua classifica annuale (Arwu-Academic Ranking of World Universities) sulle 500 migliori Università del mondo. I criteri adottati sono sei, tra i quali la presenza di premi Nobel nei professori e negli ex allievi, il numero dei ricercatori maggiormente citati nelle loro discipline, il numero delle pubblicazioni sulle riviste specializzate, il numero dei professori presenti nell’Università. Questa classifica, tra quelle elaborate annualmente, è certamente la più autorevole. Il rilievo maggiore è dato alle prime cento Università, fra le quali ben 53 sono statunitensi.
Quel che mi pare doveroso sottolineare è che fra le prime cento non figura nessuna Università italiana, mentre tra quelle europee sono presenti, in ordine decrescente, il Regno Unito, la Germania, la Svizzera, la Francia, la Svezia, l’Olanda e la Danimarca. Qualche rilievo può essere fatto sui criteri di scelta, come ha sottolineato la ministra dell’Istruzione francese, precisando che le scienze umane e sociali appaiono postergate e che anche laddove ci sono dei centri di eccellenza, soprattutto nella ricerca, la lingua usata, il francese, «scientificamente una lingua morta», può aver giocato per ridurne la reputazione scientifica internazionale.
Cade subito in taglio un identico rilievo per quel che riguarda l’Italia, nella quale centri universitari di eccellenza certamente esistono, ma il complesso del sistema dell’educazione, nonostante ammirevoli eccezioni, è assolutamente degradato, né pare che pur parlando di crescita, ma finora privilegiando l’austerità, l’istruzione sia all’attenzione della classe politica e delle istituzioni.
Ciò è particolarmente grave se si considera che il risultato delle politiche di rigore, che tolgono ogni spazio a efficaci investimenti sull’istruzione, creano all’interno del Paese un incremento inarrestabile delle disuguaglianze, come già aveva paventato il grande illuminista Condorcet, quando nelle sue “Memorie sull’istruzione pubblica” sottolineava che per risolvere le ineguaglianze create dalla libertà dei commerci (diremmo ora dalla globalizzazione e dal capitalismo finanziario), l’uguaglianza dovesse essere garantita nella parità dell’istruzione dei cittadini.
Non diversa eco gli faceva allora Adam Smith, ed oggi per citare i più recenti, Joseph Stiglitz, nel suo ultimo libro “The price of inequality”, piuttosto che Amartya Sen, che pone l’istruzione alla base della giustizia sociale e della libera partecipazione alla vita politica dei cittadini. Tutto sembra far propendere per l’icastico inizio della prima Memoria di Condorcet: «L’istruction publique est un devoir de la société à l’égard des citoyens».
Questo fondamentale e irrinunciabile principio è stato ripreso dalle più recenti teorie della giustizia, da John Rawls a Ronald Dworkin, e paiono invece completamente sconosciute o dimenticate dai vari governi italiani.
I problemi indubbi dell’economia, le cui regole eteronome sono dettate dal l’esterno, non dovrebbero mai avere il sopravvento sui diritti umani fondamentali, tra i quali quelli, secondo la classificazione di Norberto Bobbio, di seconda generazione, dove primeggia il diritto all’istruzione, che segna il passaggio della priorità dei doveri dei sudditi alla priorità dei diritti dei cittadini: ciò che costituisce un ovvio ammonimento per chi governa.
Nella direzione corretta si muoveva invece questo giornale il 19 febbraio scorso, lanciando il “Manifesto per la Costituente della Cultura”.
La situazione attuale di tagli alla Cultura costituisce per le generazioni future un handicap che sarà impossibile superare. E tutto ciò giustifica fin d’ora l’esodo degli studenti migliori verso le Università straniere e l’aumento del male peggiore del Paese, costituito dalla disoccupazione giovanile.
A ciò si accompagna l’effetto distruttivo delle basi storiche della nostra civiltà culturale, che coi tagli e gli scandali rendono il Paese non competitivo neppure sulla base delle sue radici storiche. Gli scandali culturali e la loro riduzione a fatti economici o di bilancio tormentano, in un degrado sonnolento, il nostro futuro. Mi bastano qui due esempi significativi per stimolare l’attenzione del lettore. Il primo riguarda la sorte della Biblioteca Girolamini di Napoli, quella per intenderci di Giambattista Vico, oggetto di furti e falsificazioni che hanno meritato un lungo e dettagliato articolo sull’International Herald Tribune del 9 agosto. Il secondo, ancor più preoccupante esempio, è lo scempio che sta perpetrandosi a Venezia, la più bella città del mondo, con le navi che devastano il Canal Grande e il Canale della Giudecca. E le presuntuose ristrutturazioni commerciali operate da altrettanto presuntuosi archistar, di edifici storici, o progetti di nuove opere, autorevolmente con vigorosa preoccupazione denunciate da Salvatore Settis. Viene spontaneo da chiedersi: di che si occupa allora il ministro Ornaghi?
Per tornare al nostro problema del l’istruzione, è pur vero che tra le tante previsioni vi è quella di un aumento di novanta milioni di euro per il Fondo di intervento integrativo per la concessione di prestiti d’onore e borse di studio. Ma è altrettanto vero che i prestiti d’onore agli studenti, decisivi per superare le inuguaglianze di cui ho sopra parlato, sono da tempo adottati negli Stati Uniti d’America, cioè dalle decisioni del presidente Kennedy. Il governo Obama, a sua volta, certo più dei nostri sensibile ai problemi dell’istruzione, ha comunque, pur pressato dal deficit pubblico, incentivato la richiesta di prestiti d’onore. Eppure, secondo una recente indagine della Federal Reserve di New York, l’ammontare che gli americani devono ancora restituire per i prestiti d’onore contratti per pagare le rette universitarie è pari a circa 36 miliardi di dollari, mentre alla fine del 2011 il complesso dei prestiti rilasciati agli studenti ha raggiunto l’incredibile cifra di 867 miliardi di dollari, tanto da aver indotto molti commentatori a classificare il mercato dei prestiti agli studenti simile alla bolla del disastro immobiliare, che mise in ginocchio il sistema bancario nel 2008.
Anche questo, scimmiottando il sistema americano, non si rivela dunque un modo per aiutare i giovani a costruire una società migliore. Non è attraverso l’indebitamento dei cittadini per soddisfare i loro diritti e salvare il bilancio dello Stato, creando un minor debito pubblico e un enorme indebitamento privato che crea incertezza e insicurezza sull’avvenire, che si può stimolare la crescita e l’uscita dalla depressione economica. Il sistema dell’istruzione e dei beni culturali si merita una priorità troppo trascurata per un Paese che ha una storia di grande civiltà.
Il Sol 24 Ore 19.08.12