Vogliamo la verità sulle stragi di mafia degli anni Novanta e sulle ragioni che portarono al depistaggio delle indagini su via D’Amelio. Siamo solidali con i magistrati che indagano e con tutti gli uomini dello Stato che combattono in prima linea le organizzazioni criminali. Proprio perché crediamo nei principi di legalità e nel diritto, riteniamo che la divisione dei poteri sia un caposaldo irrinunciabile della democrazia (e questo va detto a presidio dell’autonomia della magistratura come del Parlamento o del governo).
Ma della campagna promossa da il Fatto quotidiano ci pare del tutto inaccettabile l’attacco al Capo dello Stato.
Un attacco per delegittimarlo, associando il conflitto di attribuzione da lui promosso con il proposito di colpire l’inchiesta giudiziaria sulla «trattativa» Stato-mafia. La circostanza che la stessa Procura di Palermo abbia a più riprese assicurato l’irrilevanza delle intercettazioni telefoniche, su cui ora insiste il conflitto presso la Corte costituzionale, non ha mai minimamente influito sulla rotta e gli obiettivi della campagna. Che, appunto, è dimostrare una contrapposizione istituzionale, politica e morale tra i magistrati e gli altri poteri dello Stato. E di conseguenza coinvolgere, con il presidente della Repubblica, tutte le istituzioni rappresentative nel medesimo giudizio di complicità e di infamia.
La solidarietà tra e con chi si batte contro le mafie è un sentimento costitutivo, irrinunciabile dei democratici italiani. Anche perché nel nostro Paese la criminalità è un cancro diffuso, è l’ostacolo primo alla ricostruzione, e troppe verità nel tempo sono state occultate. Ma, proprio perché questa solidarietà è una pietra angolare, non può essere sequestrata e utilizzata per una costruzione politica manichea, settaria. Il Bene assoluto rappresentato dai magistrati, e il Male assoluto rappresentato da tutti gli altri, anche da coloro che si interrogano sulla crisi della legge, sugli equilibri instabili tra i poteri democratici, sui limiti della politica e del diritto: questo schema consente ai demagoghi di sfuggire dalla complessità del reale, ma la storia ci insegna che è la premessa di ideologie autoritarie.
Di certo non è un caso ciò che sta accadendo. Non è un caso che, partendo dal giusto sostegno ai magistrati anti-mafia, il cuore della campagna sia diventato l’attacco al presidente della Repubblica, cioè la personalità politica che più di ogni altra gode della fiducia degli italiani, il garante della Costituzione, l’uomo che ha guidato senza traumi (nelle istituzioni e con l’Europa) la transizione oltre il governo Berlusconi e che ora cerca, nei limiti dei suoi poteri, di guidare il Paese oltre la cosiddetta seconda Repubblica. Non è un caso neppure che i promotori della campagna, dopo la solidarietà espressa da Monti al presidente, si scaglino ora contro il premier con una radicalità che fin qui mai avevano usato quando il Paese soffriva delle conseguenze sociali delle politiche concrete del governo in carica.
Del governo Monti siamo da sempre osservatori critici. In qualche passaggio siamo stati molto critici. Per quel decifit di equità sociale che rende ancora meno sopportabili gli errori politici dell’Unione europea. Mentre invece ai manichei che ora assaltano il Quirinale le questioni sociali interessano assai poco. Noi viceversa non abbiamo mai confuso i dissensi politici con la legittimità del governo Monti: non abbiamo mai neppure pensato che Monti fosse la continuità o peggio di Berlusconi. È piuttosto la chances che i democratici hanno di uscire dalle macerie della seconda Repubblica e arrivare al voto.
Il tema dello scontro è esattamente questo: uscire o no dalla seconda Repubblica. Quando la bufera di Tangentopoli travolse la vecchia classe politica, prevalsero i demagoghi: l’esito fu la vittoria di Berlusconi e, se non fosse nato l’Ulivo, l’inerzia di allora avrebbe presto travolto la Costituzione nata dalla Resistenza.
Il centrosinistra oggi è chiamato a una sfida molto difficile, anche per il discredito che circonda la politica. L’opportunismo spinge ad assecondare le semplificazioni, a non andare controcorrente. Ma chi si propone di governare la ricostruzione deve tenere la schiena dritta e comprendere i passaggi cruciali. L’attacco al Capo dello Stato non è una questione di stile. Alla fine non conta neppure se Napolitano deciderà di procedere sul conflitto di attribuzione o meno, se la Consulta gli darà ragione oppure no.
Il tema è se la Costituzione repubblicana e le istituzioni che hanno resistito alle torsioni della seconda Repubblica siano ancora capaci di sostenere un governo politico di ricostruzione. Il tema è la legittimità del Parlamento a cambiare il Porcellum. Il tema è l’autorevolezza dell’esecutivo che nascerà dal voto. Per questo la difesa del Capo dello Stato e del suo ruolo di garante è condizione vitale della strategia del centrosinistra. Per questo è il discrimine di ogni alleanza futura. Per questo i demagoghi e gli oligarchi sono alleati in difesa dello status quo: pensano che bisogna ancora e sempre demolire. Invece è arrivato il tempo di ricostruire: basta uomini soli al comando, basta corporazioni e lobby che vogliono limitare la politica democratica. Democrazia è equilibrio e divisione dei poteri, ed è anche coscienza del limite.
L’Unità 19.08.12