Non sono tempi felici. La crisi colpisce l’occupazione e si restringono le prospettive di nuove assunzioni, non solo per gli italiani, ma anche per gli stranieri. Gli stranieri, però, se la cavano relativamente meglio. Questo almeno è quanto emerge dalle previsioni per il 2012 dell’indagine Unioncamere–Ministero del Lavoro. La domanda complessiva di lavoratori immigrati (stagionali inclusi) dovrebbe diminuire quest’anno del 18% rispetto al 2011, quella degli italiani del 31,6%. Quindi l’incidenza degli stranieri sulle assunzioni complessive dovrebbe salire ulteriormente (dal 16,3% dello scorso anno al 17,9% di quest’anno).
Si consolida, insomma, il carattere strutturale della forza lavoro immigrata nella nostra economia: si tratta di una componente che anche di fronte alla crisi perde colpi, ma resiste relativamente meglio. Le sue caratteristiche confermano, però, alcune pesanti debolezze del sistema Italia, che è bene non continuare a trascurare. La nostra economia attrae un’immigrazione meno istruita rispetto a quella che raggiunge altri paesi europei. Nel 2010 i laureati rappresentavano solo il 10% degli immigrati in età lavorativa residenti in Italia.
Decisamente meno non solo delle incidenze che troviamo in Francia, Inghilterra e Svezia, ma anche in Portogallo e Spagna. In compenso questi ultimi paesi, i soliti nostri compagni degli ultimi banchi, «battono» l’Italia per la consistenza di lavoratori con livelli di istruzione minimi. Ma la cosa non consola. Perché anche se i nostri immigrati sono nell’insieme abbastanza istruiti, sebbene non quanto quelli che si dirigono verso economie più solide della nostra, lo sono meno degli italiani. Quindi non arricchiscono il nostro capitale di competenze. Come se non bastasse, la quota di stranieri con un titolo di studio più elevato è diminuita tra il 2001 e oggi. Si aggiunga che l’investimento formativo degli stranieri, quando c’è, spesso non è messo a frutto. Specie le lavoratrici straniere – mediamente più qualificate delle loro controparti maschili – fanno lavori assai poco qualificati rispetto alle loro capacità.
Il fatto è che in Italia la domanda di addetti con alte competenze è scarsa in generale. Non solo: come ci segnala il Rapporto Isfol 2012, è pure in calo. Nel nostro paese la quota di professioni ad elevata specializzazione rappresenta solo il 18% del totale, contro il 23% della media Ue. E, mentre in Europa la percentuale di occupazione in quel tipo di professioni aumenta costantemente, in Italia invece negli ultimi 5 anni si è contratta dell’1,8%, contro un aumento che ha raggiunto il 4,3% in Germania, il 4,4% nel Regno Unito e il 2,8% in Francia.
Insomma, non solo aumenta la disoccupazione e diminuiscono le opportunità di nuove assunzioni, ma la qualità della forza lavoro presente sul nostro territorio nel suo insieme peggiora. Certo, la crisi degli ultimi anni contribuisce ad accentuare il problema, ma non lo ha creato. È lo stesso sistema produttivo italiano, fatto di piccole imprese in molte delle quali si investe poco in innovazione e sviluppo, dove si fa scarso uso di lavoro specializzato, che spiega sia l’impoverimento qualitativo della nostra forza lavoro, sia la sua scarsa e decrescente produttività, sia la complessiva debolezza e inadeguata competitività della nostra economia. È apprezzabile il tentativo di attrarre lavoratori super specializzati, ma – rebus sic stantibus, cioè con questa economia reale – non sappiamo quanto successo possa avere.
A favorire l’ingresso di immigrati istruiti mira il decreto, entrato in vigore da pochissimi giorni, che attua la Direttiva Europea sulla cosiddetta «carta blu», un permesso speciale attribuito proprio ai lavoratori stranieri specializzati (almeno una laurea triennale): per loro non si prevedono limiti di quote, purché dispongano di un’offerta di lavoro. Ma quanti ne faranno uso per venire a lavorare proprio in Italia? Temo pochi.
Si può presumere che, invece, numeri più consistenti siano il risultato di un altro provvedimento; anch’esso recente. A metà luglio 2012, partendo dall’attuazione di una Direttiva Europea contro lo sfruttamento del lavoro immigrato irregolare, è stato votato un decreto legislativo che in pratica consentirà un’altra sanatoria. Assai probabilmente questa misura farà emergere un’ulteriore quota di lavoro immigrato destinato per lo più a mansioni poco qualificate. A completare questo quadro poco roseo per le prospettive del sistema Italia, si inserisce non solo un generico aumento (+4%) dell’emigrazione italiana, ma la costante perdita di giovani qualificati e di ricercatori. Secondo il centro studi «La fuga dei talenti» il 70% degli oltre 60.000 giovani che lasciano ogni anno l’Italia è laureato. Come porvi rimedio? Qualche anno or sono, una ricerca finanziata della Commissione Europea aveva messo in evidenza il fatto che non bastano incentivi monetari o fiscali per evitare fughe di cervelli e invogliare rientri: il più efficace rimedio all’esodo è costituito da centri di eccellenza, dove i ricercatori possono lavorare con profitto, in ambienti che si confrontano con i migliori standard. La stessa logica si dovrebbe applicare alle imprese. Occorre premiare fusioni o reti tra imprese che consentano di raggiungere economie di scala tali da incentivare investimenti in ricerca e sviluppo; si devono, al contrario, evitare trattamenti che disincentivino il superamento di un certo numero di addetti. La riforma Fornero si è mossa in questa direzione, ma non senza difficoltà, ostacoli e forzosi arretramenti.
Il governo Monti sta facendo molto per evitare il disastro nei nostri conti pubblici. Non si può negare che stia pure tentando di riformare il sistema economico nel suo insieme, impresa non facile dato il contesto politico. Ma è necessario che continui con maggiore decisione su questa strada. Non si evita il disastro vivacchiando nel vecchio, come troppi pseudo innovatori politici vorrebbero. Abbiamo bisogno di riforme tali da rassicurare i mercati e i partner europei perché possano diminuire interessi sul debito, onerosi quanto ingiustificati. Ma non bisogna mai dimenticare che al centro della nostra attenzione e dell’azione dei governi italiani deve restare l’economia reale. Per non restare intrappolati in un presente ansiogeno, abbiamo bisogno di regalarci un futuro economico credibile.
La Stampa 19.08.12