Incoraggiano. Scoraggiano. Servono. Non servono. Sopra il 4, sotto il 4, a volte c’è anche il “meno-meno”, in mezzo ci sono gli studenti frastornati, le famiglie ancora di più, e un sistema di valutazione, quello italiano, più contraddittorio che mai. Voti alti, voti bassi: la discussione dura esattamente da 35 anni. Da quando nel 1977 i “numeri” della pagella scolastica vennero sostituiti dai giudizi, per riapparire però pochi anni dopo, riveduti, corretti e accompagnati da asterischi e postille, in una contabilità di meriti e demeriti ancora più complicata. E se negli anni la battaglia ha riguardato prima il sei politico e poi il diciotto garantito, oggi al centro del contendere c’è il quattro. E molto di più, come ha raccontato su
Repubblica la scrittrice (e insegnante) Maria Pia Veladiano, spiegando perché è inutile, anzi controproducente, mettere agli studenti voti troppo bassi, sotto il quattro appunto, sotto quell’asticella simbolica che spesso i ragazzi traducono con «io non valgo, io non sono». Trasformando a volte un’interrogazione fallita in un disagio esistenziale.
Ed è da qui infatti che è ripartita la discussione sui voti scolastici. A cominciare dalla propostaprovocazione del preside del liceo Berchet di Milano, Innocente Pessina, che nella primavera scorsa aveva proposto al consiglio dei docenti di non scendere più, nella valutazione degli studenti, sotto il quattro. Evitando appunto quel frazionamento (umiliante) dei tre meno-meno, due e mezzo, e così scendendo e spezzettando. Un’idea che è già realtà in Trentino, dove non esistono voti fino alla terza media, e alle superiori il voto più basso, è appunto, il quattro… Giusto, sbagliato? Le posizioni sono diverse e diversificate, anche se non ci sono più le fazioni pro-voto, e quelle anti-voto. Caduta infatti la contrapposizione ideologica, ciò che resta, sottolinea Benedetto Vertecchi, docente di Pedagogia Sperimentale all’università di Roma Tre, è la constatazione dell’assenza in Italia, «di un meccanismo di valutazione chiaro, basti guardare il fallimento dei test Invalsi».
Perché ciò che manca, dice Vertecchi, «è un sistema di valori solido in cui inserire il voto o il giudizio, un rapporto studente-allievo di fiducia, non un numero puro e semplice e tutto finisce con quel quattro, qualunque sia il contesto, qualunque sia la condizione globale di quel ragazzo». Insomma il voto è un simbolo, non negativo in sé, ma spesso del tutto insufficiente a rappresentare la realtà di uno studente. «Dunque è inutile — aggiunge Vertecchi — essere tanto severi, se poi quel 4 in pagella non serve ad un cambiamento». Favorevoli invece a mantenere i voti così come sono, i genitori del Moige, preoccupati dell’avanzare di una scuola troppo facile e permissiva.
«Ai ragazzi non servono sconti, la scuola deve educare alla durezza della vita — ha commentato Antonio Affinita — e deve essere chiara. Il rischio vero è quello di creare un ambiente talmente ovattato e protetto per i nostri ragazzi da spingerli verso comportamenti non propri. E se uno studente ha preso un 2, un motivo ci sarà…».
La Repubblica 17.08.12
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“Un due scoraggia i ragazzi e incrina il rapporto con il prof”
Professor Pessina, al liceo Berchet avete abolito i voti al di sotto del 4?
«Aboliti no, ma sono molto diminuiti. Un successo. Ma non è stato facile».
Perché? Lei alcuni mesi fa aveva chiesto ai prof del suo liceo di non mettere più voti al di sotto del quattro.
«Infatti. Ho fatto quella proposta per due motivi: ho visto che i voti inutilmente bassi scoraggiano gli studenti, e perché al Berchet non c’era una equità valutativa ».
Cioè professori più “avari” di voti e altri più “generosi”?
«Proprio così. Per quattro anni ho raccolto i dati degli scrutini, li ho elaborati al computer, e poi ho dimostrato che di fronte a due studenti con la stessa preparazione, uno aveva magari la sufficienza, l’altro un voto più basso».
La reazione dei prof?
«Pessima, all’inizio. Perché ho dimostrato loro che bisogna essere credibili, e i voti troppo bassi non servono. Di fronte ad un 2 gli studenti non migliorano. Si sentono offesi. E questo perché quel 2 gliel’ha dato un professore che non ha alcuna relazione educativa loro. E allora bisogna ritrovare questa relazione, altrimenti la fuga dalla scuola continuerà».
(m. n. d. l)
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“Non rinunciamo al nostro ruolo la delusione diventa riscatto”
Paola Mastrocola, lei è insegnante e scrittrice. Che voti mette ai suoi studenti? Anche qualche 2 o 3? O sotto il 4 non si scende?
«Non sono mai contenta di mettere un voto basso, ma se il tema di un ragazzo merita 3, io lo valuto 3. Però poi sono lì ad ascoltarlo, a mostrargli, se vuole, la strada per recuperare».
Non crede che gli studenti di fronte ad una critica così netta possano demotivarsi?
«Ma noi non possiamo avere paura del nostro ruolo, non possiamo non sgridare un bambino che tira le pietre sugli altri per paura che pianga. Questa è una educazione della dismissione. E credo che gran parte dei problemi dei ragazzi derivino dalla paura degli adulti di educarli».
E come reagiscono i suoi studenti ai brutti voti?
«Male, come tutti i ragazzi. Spesso però questa delusione si trasforma in una voglia di riscatto. Ma il rapporto con l’insegnante è fondamentale. Trovo assurdo invece bocciare».
Lei manderebbe tutti avanti?
«Le bocciature non sono mai utili, sono anni perduti. Piuttosto utilizzerei i livelli come nella scuola americana. Tutti arrivano in fondo, anche se con votazioni e punteggi differenti».
(m.n.d.l)
La Repubblica 17.08.12