Sarà un ferragosto di meritato riposo per tanti italiani. Ma l’animo di molti è carico di apprensione, di paura, di rabbia. Tra questi gli operai dell’Ilva e i cittadini di Taranto, vittime di uno scontro inaccettabile tra salute e lavoro. Lo Stato si gioca in questa terra del Sud una partita decisiva: per la propria credibilità, per la sopravvivenza della manifattura italiana e di politiche industriali degne di questo nome, per il ruolo che il nostro Paese occuperà nell’Europa di domani. Se si spegnerà l’altoforno, la nostra siderurgia sarà morta. Ma tenere aperta l’azienda, vuol dire necessariamente e seriamente risanare.
Il tema non è l’ennesimo conflitto tra la magistratura e altri organi dello Stato, ma è per intero la capacità della politica di guidare processi reali di cambiamento. In Germania si produce acciaio a prezzi competitivi e con costi ambientali ridotti. Non si capisce perché non lo si possa fare anche in Italia. E, se la proprietà dell’Ilva si rifiutasse di partecipare alle spese, scaricando sullo Stato tutti i costi del risanamento (ci auguriamo non accada, viste le recenti dichiarazioni), non si capisce in base a quale ideologia l’azienda non potrebbe tornare allo Stato. In Francia, di certo, non si fanno scrupoli quando giudicano un’impresa strategica ai fini dell’interesse nazionale.
Sarà ancora una volta un Ferragosto di grande preoccupazione per gli operai discriminati dalla Fiat per la loro tessera Fiom: il rifiuto del Lingotto di adempiere alle sentenze favorevoli ai lavoratori ricorrenti è un vulnus che non può essere tollerato in un Paese democratico. Anche in questo caso serve un governo forte, attento all’economia reale, capace di mediazioni sociali e al tempo stesso di progetti di più lungo periodo. Un governo che chiami Marchionne ad un confronto serio sul futuro. Un governo che rimetta in agenda, davvero, le politiche industriali dopo la lunga, colpevole assenza dell’epoca berlusconiana.
Perché la malattia dell’Italia non si misura soltanto con lo spread. Il termometro sociale sono le decine di migliaia di lavoratori di aziende che stanno chiudendo. Sono le famiglie retrocesse nella fascia di povertà dai tagli all’occupazione e ai servizi sociali. Sono i giovani che non trovano lavori dignitosi e sono costretti così a rinunciare a un pezzo del loro futuro. Questo agosto segue una lunga crisi. La più profonda dal dopoguerra. E purtroppo la fine del tunnel ancora non si vede. Settembre ci farà scoprire che i destini e gli interessi di tanti imprenditori saranno sempre più intrecciati con quelli dei loro dipendenti: ma il timore è che la mortalità delle aziende possa crescere ancora. Con danni gravissimi al sistema produttivo del Paese e alla sua capacità di riconoscersi come una comunità.
A settembre toccheremo con mano che la legislatura sta ormai volgendo al termine. È stata la legislatura della grande vittoria elettorale e poi del clamoroso fallimento politico di Berlusconi. Una stagione che, combinata alla crisi economico-finanziaria, ha spinto il Paese sull’orlo del baratro. Il compromesso raggiunto sul governo Monti ci ha consentito di tornare a sederci al tavolo europeo con la dignità che avevamo perso. Il punto oggi non è quanto Monti non sia riuscito a fare, quanto abbia fatto bene o male: il punto è quale strategia, quale forza, quale politica il centrosinistra può mettere in campo per portare il testimone dove, in tutta evidenza, il governo dei tecnici non potrà mai arrivare. Una cosa è certa: Monti ha alzato l’asticella per il suo successore e ha messo fuori gioco molti curricula.
L’Italia deve molto a Giorgio Napolitano. Ha posto le basi istituzionali di una ricostruzione possibile. E lo ha fatto quando era più solo, con alle spalle un rischio di insolvenza dello Stato che avrebbe bruciato il futuro di almeno tre generazioni. Chi oggi critica il presidente con argomenti pretestuosi e meschini, in realtà non ha alcun interesse per chi soffre concretamente a causa della crisi o per la democrazia che rischia di perdere le stesse basi di sovranità. La seconda Repubblica ci ha portato una concezione della politica cinica e grottesca: tanto che demagoghi e populisti si sono moltiplicati a destra e a sinistra.
Monti ha adottato politiche di rigore finanziario. Eseguendo i compiti dettati dall’Europa. Gli effetti dei suoi decreti hanno in parte aggravato gli squilibri sociali interni (e correzioni nel senso dell’equità sono necessarie da subito, come ha scritto anche ieri il Capo dello Stato). C’è ancora la spending review da proseguire per scongiurare almeno l’aumento dell’aliquota Iva. Ma ci sono soprattutto gli interventi per la crescita che mancano da troppo tempo: se il Pil italiano cala addirittura di più di quello spagnolo vuol dire che persino la Spagna, nella crisi, ha adottato politiche anti-congiunturali più efficaci delle nostre. E poi c’è il piano di riduzione del debito – almeno decennale – che va progettato e portato in Parlamento.
Monti può fare ancora un tratto di strada. Ma le scelte di fondo appartengono a un governo che nasca dalle elezioni. E tutto possiamo permetterci tranne che una campagna elettorale lunga sei mesi. Questo invece è il rischio dell’autunno: mentre le condizioni sociale, inevitabilmente, si aggraveranno. Il governo Monti faccia in fretta quel che deve fare. E i partiti della «strana» maggioranza si prendano le loro responsabilità prima di dar vita a una competizione tra chiare alternative politiche. La riforma elettorale deve avere la massima priorità: due settimane, al massimo tre. Non si può tornare a votare con il Porcellum: gridino pure i populisti di destra e di sinistra, che al Porcellum ora si stanno aggrappando. Al Capo dello Stato va rimessa la scelta del momento migliore per votare con una nuova legge. Potrebbe essere un danno gravissimo per l’Italia impedirgli lo scioglimento delle Camere in tempo utile per il voto in autunno.
l’Unità 15.08.12