Il vero marziano, lì sul Pianeta rosso, in questo momento è lui, Curiosity. Il robot costruito dall’uomo che, con i suoi 899 chilogrammi semoventi, non è solo il più grosso, ma anche il più autonomo che si muova nello spazio lontano dalla Terra. Ha ragione Barack Obama: quel rover che rulla su Marte costituisce un grosso exploit tecnologico. Curiosity costituisce un vanto e un’opportunità per gli Stati Uniti non solo per i suoi obiettivi scientifici, che pure ci sono e sono importanti: studiare l’abitabilità di Marte. Ovvero verificare se sul più pianeta roccioso più esterno del sistema solare esista o sia esistita la vita (in forma microbica) o, almeno, se esiste o siano esistite le condizioni che noi riteniamo essenziali per la presenza della vita. Almeno della vita così come la conosciamo. E, infine, capire se ci sono le condizioni minime necessarie per una futura presenza umana su Marte.
Ma Curiosity costituisce un vanto e un’opportunità per gli Stati Uniti anche (e, allo stato, soprattutto) per due ragioni, legate entrambe allo sviluppo della robotica. Curiosity un robot avanzato. Non solo perché, come spiega la Nasa in un’abile campagna di comunicazione, ha una testa pensante, oltre che degli occhi, un collo, delle ginocchia e persino, come usa in molti fumetti di fantascienza, di un braccio che si trasforma in trapano. Quella testa pensante è costituita da un computer e da un software capaci di conferire al robot notevole autonomia di movimento. Il software di Curiosity è l’evoluzione di quello in dotazione ai suoi fratelli minori, Pathfinder, Spirit, Opportunity che hanno già esplorato la superficie marziana.
La vera novità di Curiosity risiede nel fatto che la sua capacità di muoversi in un ambiente sconosciuto senza intervento umano si estende per una ventina di chilometri. Insomma, è come se i robot spaziali fossero cresciuti nel corpo e nella mente e dall’età neonatale – con la possibilità di gattonare in casa o in giardino – fossero passato all’età pre-adolescenziale, con la possibilità di girare da soli e magari anche di notte in tutta la città. Questa evoluzione spalanca, come dicevamo, almeno due porte. Una nello spazio. Perché consente alla Nasa – ma, anche all’intera umanità – di «fare di più con meno». Ovvero di esplorare lo spazio fuori dal nostro giardino terrestre con grande efficienza e poco costo. Per intenderci: la missione Mars Science Laboratory ha portato Curiosity su Marte al costo di 2,5 miliardi di dollari. Si calcola che una missione con uomini a bordo costerebbe oltre 100 miliardi di dollari.
Il suo successo costituisce, forse, motivo di rallentamento dello sbarco dell’uomo su Marte e dell’esplorazione umana degli spazi profondi. Ma costituisce anche un formidabile sprone alle missioni robotiche, che con pochi soldi ottengono straordinari risultati. E non solo d’immagine e/o di conoscenza scientifica. Eccoci, dunque, alla seconda porta spalancata da Curiosity. Una porta tutta terrestre. Portando quel grosso robot su Marte, infatti, gli Stati Uniti hanno dimostrato – a se stessi e agli altri – di essere all’avanguardia nel campo della robotica. E, in particolare, nella produzione di robot autonomi di servizio da impiegare in ambienti estremi. Ora è opinione che i robot costituiranno, insieme alle nanotecnologie, la grande sfide dell’innovazione del futuro. Chi possiederà queste tecnologie dominerà i mercati dell’economia reale del futuro.
In passato gli Stati Uniti hanno già vinto due volte queste gare economiche e geopolitiche segnate dalla tecnologia. La prima volta proprio con le tecnologie spaziali, quando dopo lo schiaffo dello Sputnik nel 1957, reagirono alla sfida a valenza più militare che economica dell’Unione Sovietica e portarono per primi l’uomo sulla Luna. Dimostrando al mondo e a se stessi di essere i primi sul fronte tecnologico. L’economia americana beneficia da allora di questo investimento strategico nell’hi tech. La seconda volta è stato negli anni ’80 e ’90, quando gli Usa si sentivano minacciati dall’aggressività economica e dalla capacità d’innovazione del Giappone e decisero di portare la sfida nel campo dell’elettronica più avanzata e della biomedicina (ricordate Richard Nixon che nel 1970, all’indomani dello sbarco sulla Luna, dichiarò la “guerra al cancro”)? La sfida con l’alleato giapponese fu vinta e oggi nessuno se ne ricorda più.
Oggi gli Stati Uniti si sentono minacciati dall’aggressività economica e anche dalla capacità d’innovazione della Cina. E, sebbene la scelta del campo di sfida non appaia ancora chiara, è molto probabile che intendano puntare sulla robotica (soprattutto spaziale) e sulle nanotecnologie per raccoglierla. Non è un caso che Washington freni su quasi ogni ipotesi di collaborazione con Pechino nello spazio, mentre accetta la piana collaborazione dell’Europa e persino della Russia. E non è solo retorica elettorale l’entusiasmo, un po’ sopra le righe secondo alcuni, manifestato ieri da Obama quando ha visto Curiosity toccare il suolo marziano.
L’Unità 07.08.12