È sempre più evidente che la crisi economica rimane fuori da ogni controllo anzitutto per una ragione politica. C’è un nervo scoperto nel progetto europeo, ed è la mancanza di un centro di decisione comune. Gli investitori e gli speculatori internazionali (il confine tra i due mondi è sempre più sfuggente) hanno ben individuato questa stranezza istituzionale e approfittano con cinica determinazione del palpabile vuoto di potere. Senza alcun scrupolo, gli acquirenti di titoli del debito sovrano giocano pericolosamente sul filo del rasoio.
Osano spingersi fino a lambire l’impensabile per ogni attore razionale, cioè sino a coltivare la incredibile vocazione al peggio che spinge un creditore a favorire la morte cruenta del debitore strozzato per insolvenza.
Sperare in un operoso rinsavimento degli speculatori, che li induca a preferire giochi meno rischiosi, è un atto sin troppo illusorio. La consapevolezza della possibile rovina comune che potrebbe colpire gli attori del gioco competitivo arriva, ma purtroppo sempre in ritardo. È inutile scommettere in un soprassalto di razionalità che si ripresenta in prossimità del baratro e convince gli speculatori ottusi ad adottare mosse più responsabili. Servono comunque a poco anche le invettive morali contro l’avidità della finanza. E proprio a nulla vale rivendicare con puntiglio che i compiti a casa sono stati eseguiti con diligenza e dunque è giusto adesso elemosinare un trattamento più riguardoso. Il problema è che i manovratori del denaro non si lasciano mai incantare dai gridi di dolore e non si commuovono dinanzi ai sacrifici umani che provocano le loro spavalde gesta egoistiche.
Occorre perciò, con estremo realismo, puntare su altro. Una moneta che circola senza il comando di un potere sovrano, e priva della copertura di una Banca centrale con facoltà analoghe a quelle dei governatori dei vecchi Stati nazionali, appare qualcosa di campato in aria. Si tratta di una enorme debolezza di tipo strutturale che autorizza ogni speculatore a coltivare gigantesche aspettative di lucro. Rimediare a questa strabica condizione europea, che costringe ad avere una moneta comune quando però la condotta degli Stati rimane fortemente competitiva nel mercato, è la condizione politica per affrontare di petto la crisi. Il guaio è che questa strada efficace richiede del tempo mentre dinanzi a un impazzito debito pubblico di Stati aggrediti, gli speculatori con insolenza si accaniscono sulla preda e non mollano la presa fino alla completa rovina di un Paese.
È possibile uscire da questo orribile circolo vizioso (di debiti onerosi, di sacrifici recessivi per appianarli e di un debito ancor più insostenibile) che mette in ginocchio le nazioni, banalizza il gioco democratico svuotandolo di ogni senso? Dal disastro che incombe si può stare alla larga purché si abbia la forza di costruire un forte movimento europeo capace di cambiare le politiche continentali e di rivedere i meccanismi istituzionali che hanno venerato il dogma della stabilità monetaria affidata a una autoreferenziale Banca centrale. Il fattore di resistenza costituito dalla Germania deve essere sfidato con l’apparizione di un incisivo movimento politico e culturale europeo che mostri come il contagio, che dapprima colpisce un paese marginale e poi passa ad altri paesi più centrali, disegni un paesaggio spettrale per tutti.
È difficile che un Paese rinunci spontaneamente ai vantaggi corposi che nel breve termine sono offerti dall’Euro (una autentica protezione dorata, rispetto alla rigidità del vecchio marco, che permette alla Germania di navigare trionfale nelle esportazioni senza più l’insidia di svalutazioni competitive escogitate dalle monete più fragili). Occorrerebbero degli statisti, che anche in Germania difettano, per scrutare oltre il mero tornaconto immediato. E però se la ragione politica è offuscata nel cogliere le tendenze di più lungo corso, anche le prosaiche cifre delle compravendite dovrebbero indurre a una maggiore accortezza. Le ultime statistiche svelano che le esportazioni tedesche in Italia nel primo trimestre del 2012 sono crollate del 18 per cento. Un Paese esportatore, che scommette sul tracollo dei Paesi che dovrebbero acquistare le proprie merci e prodotti ad alta tecnologia, costituisce una completa assurdità politica ed economica.
Su questa insenatura deve penetrare la politica prima che sia troppo tardi. La sinistra europea deve essere con sempre maggiore determinazione la protagonista principale di una fuoriuscita dalla crisi che viene sempre più aggravata dalla cecità delle destre tedesche. La politica conta, come è emerso con trasparenza quando la Francia di Hollande ha spezzato l’asse di Parigi con Bonn, incrinando la solidità della dittatura del santo rigore.
Al vecchio progetto europeo affidato alla asimmetria di potenza degli Stati (che invocano per i Paesi in difficoltà misure di intervento finanziario in cambio di drammatici impegni pluriennali a sostenere sacrifici che di fatto spingono fino alla terribile eutanasia della democrazia) occorre ormai contrapporre con coerenza il percorso di un’altra integrazione europea che confida nel valore costituente dei grandi partiti continentali. Non gli Stati, con la loro inestirpabile volontà di potenza e di assoggettamento, ma i partiti, con il loro spirito di inclusione, devono essere gli artefici di una nuova Europa politica, capace di omogeneità sociale e fiscale, di decisione sulle grandi emergenze. Solo dalla sinistra e dai progressisti può venire una risposta alla drammatica fine dell’Europa.
L’Unità 07.08.12