In un momento in cui si manifestano diversi “intenti” politici e si discute intensamente di legalità costituzionale, conviene tornare sulle indicazioni date dall’importantissima sentenza della Corte costituzionale su referendum e servizi pubblici. Ad essa dovrebbero rivolgere un’attenzione particolare i partiti, perché in quella decisione sono affrontate con chiarezza non usuale questioni che riguardano il complessivo funzionamento del sistema politico-istituzionale. Infatti, restaurando la legalità violata da norme che cercavano di cancellare i risultati dei referendum di un anno fa, la Corte ha pure dato indicazioni significative su temi oggi al centro della discussione: i rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta; tra governo, regioni e comuni; tra ordinamento europeo e ordinamento nazionale; tra mercato e “missione” degli enti pubblici. Tutto questo avviene grazie ad una ricostruzione della trama istituzionale che riconosce alla Costituzione il ruolo che le compete e che, di questi tempi, viene invece continuamente vilipeso dalle iniziative più varie e sgangherate, dalle proposte di assemblea costituente o di referendum di indirizzo fino agli aggiramenti dettati da un estremismo liberista che vuole liberarsi anche dei principi costituzionali. La Corte ha restituito l’onore alla Costituzione, mostrando al tempo stesso di non essere subalterna a pressioni e convenienze e smentendo così la pericolosa vulgata che, diffusa ora da una parte ora dall’altra, la rappresenta come una istituzione non affidabile.
Nella sentenza si ricorda che, ad appena un mese dai referendum, il governo Berlusconi aveva approvato una norma che, fingendo di dare attuazione alla volontà referendaria, in realtà riproponeva, addirittura in maniera più restrittiva, le stesse norme, spesso con le stesse parole, che ventisette milioni di cittadini avevano abrogato con il loro voto. Il governo Monti si è mosso secondo la stessa logica, troppi enti locali hanno continuato a comportarsi come se il referendum non vi fosse stato, i partiti hanno spesso accompagnato questa deriva con silenzi o complicità. Vane, fino al giorno dell’intervento dei giudici costituzionali, erano state le denunce di questa situazione di palese illegalità. Ora la Corte ha detto senza mezzi termini che quelle norme sono costituzionalmente illegittime, perché non si può “ledere” la volontà popolare. La legalità costituzionale è stata ristabilita. Già salvaguardata l’acqua come bene comune, viene ora meno il sostanziale obbligo dei comuni di privatizzare i servizi pubblici locali. Questo era l’intento dei promotori dei referendum, e dei cittadini che li hanno votati, mentre le norme dichiarate illegittime intendevano tener ferma “l’identica ratio” che stava alla base delle norme abrogate.
Risulta ormai evidente che Governo e Parlamento avevano cercato di realizzare una vera e propria frode legislativa a danno dei cittadini, partendo dalla disinvolta premessa che un istituto di democrazia diretta, qual è appunto il referendum, potesse essere trattato come un qualsiasi sondaggio o, com’è stato scritto con notevole impudenza, come un semplice “consiglio” al legislatore. La sentenza della Corte spazza via questa proterva subcultura, chiarendo con precisione quali siano gli effetti dell’abrogazione referendaria e, di conseguenza, i limiti che il legislatore deve rispettare quando vuol tornare sulla stessa materia. E così, portando
alle loro logiche conseguenze anche indicazioni contenute in sentenze precedenti, ribadisce con nettezza quali siano i criteri ai quali ci si dovrà attenere in futuro. In questa sua operazione la Corte è stata sostenuta da una forte consapevolezza culturale. La sentenza, infatti, sottolinea la necessità di considerare la “prospettiva di integrazione di strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa”. Proprio perché la tradizionale democrazia rappresentativa è da tempo in profonda difficoltà, si è fatto insistente il richiamo ai più diversi istituti della democrazia diretta, al referendum in primo luogo, di cui deve essere considerata la mutata funzione in questo diverso contesto. Una riflessione costituzionale seria non può eludere questo punto, perché solo l’integrazione nel sistema rappresentativo può evitare la trasformazione dei referendum nello strumento tipico del populismo. È per questo che i risultati referendari devono essere non solo rispettati, ma presi terribilmente sul serio da Governo e Parlamento. La Corte, dunque, coglie uno spirito del tempo, che si ritrova peraltro nel modo in cui il Trattato europeo di Lisbona configura il rapporto tra rappresentanza e partecipazione dei cittadini.
Ma i giudici costituzionali individuano un’altra questione ineludibile quando ricordano che una applicazione esclusiva del principio di concorrenza può far sorgere “ostacoli in diritto o in fatto alla ‘speciale missione’ dell’ente pubblico”. È evidente l’intento di reagire alla pretesa di usare l’emergenza come occasione o pretesto per travolgere qualsiasi principio costituzionale, quasi che l’unica salvezza possa venire dalla legge del mercato, divenuta davvero il nuovo “diritto naturale”. Ma la cura di interessi generali non può essere affidata al solo meccanismo della concorrenza, quasi che l’esistenza di soggetti pubblici come i comuni, nascenti anch’essi dall’investitura popo-lare, debba essere considerata un inciampo dal quale sbarazzarsi. Anche qui bisogna misurarsi con un cambiamento culturale, che parte dai diritti delle persone e li mette in relazione con i beni e i servizi necessari per la loro soddisfazione, individuando le situazioni per le quali la tradizionale mediazione del mercato si rivela distorcente. Non dimentichiamo che, tra le norme abrogate con referendum, vi è anche quella che prevedeva modalità di remunerazione del profitto per la fornitura dell’acqua. Liberati dall’ossessivo vincolo privatistico, i comuni potranno ora esercitare più liberamente la loro responsabile facoltà di scelta, che tuttavia deve essere, come per il legislatore, coerente con le indicazioni referendarie.
Tutto questo crea difficoltà? Certamente. Ma queste nascono dalla testardaggine con la quale ci si è chiusi nella cieca difesa delle vecchie logiche, senza voler fare i conti con il nuovo, con il fatto che è comparsa un’altra politica, figlia di un’altra cultura. La cattiva politica, anche economica, di questi anni discende proprio da una regressione culturale. Non è tanto l’invecchiamento del personale politico a dover preoccupare, quanto l’invecchiamento delle loro idee. Quando in Italia sono state fatte politiche davvero innovative, erano ben visibili i canali di comunicazione con le elaborazioni culturali che avevano preparato l’innovazione. Forse la sentenza della Corte costituzionale convincerà qualcuno della necessità di riaprirli.
La Repubblica 07.08.12